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Tutte le difficili scelte di Trump e Gentiloni sull’Afghanistan

Paolo Gentiloni, Afghanistan

Ricordate l’Afghanistan? Mentre l’attenzione è giustamente concentrata sull’Iraq, sulla Libia e sull’immigrazione, in quel lontano Paese la guerra continua. Se ne parla pochissimo anche se l’Italia schiera 1.037 militari, impegnati solo nell’addestramento delle truppe afghane, su un totale di 13.300 di cui circa 7mila americani (cifre Nato). Fanno parte di Resolute support, la missione “no combat” che dal 1° gennaio 2015 ha sostituito Isaf. La guerra ai talebani è in mano alle truppe afghane, anche se certo non manca il supporto statunitense, e le notizie che arrivano sono sempre peggiori. Secondo l’ufficio dell’Ispettore generale per la ricostruzione dell’Afghanistan che nei giorni scorsi ha fornito i dati al Congresso degli Stati Uniti, al 15 novembre 2016 il governo di Kabul controllava solo il 57 per cento del Paese, cioè il 15 per cento in meno di un anno prima; i talebani ne controllavano il 10 per cento e il resto è oggetto di scontri di vario genere. Da un rapporto della missione dell’Onu per l’assistenza all’Afghanistan (Unama) emerge che l’anno scorso ci sono stati meno morti, ma più feriti, per una somma di 11.418 (più 3 per cento e con un aumento del 25 per cento riguardo ai bambini).

A queste aride cifre si aggiungono quelle sugli attentati degli ultimi giorni. Il 7 febbraio un kamikaze si è fatto esplodere alla Corte Suprema di Kabul causando almeno 20 morti e alcune decine di feriti, attentato rivendicato dall’Isis. Il giorno successivo sei dipendenti del Comitato internazionale della Croce rossa sono stati uccisi in un attacco a un convoglio nel nord dell’Afghanistan e due sono considerati dispersi, forse rapiti. La Cri ha sospeso l’attività di assistenza. Un mese fa, il 10 gennaio, un altro attentato a Kabul aveva provocato 38 morti e un’ottantina di feriti. Sull’altro fronte, i continui scontri nella provincia meridionale di Helmand hanno provocato una ventina di morti tra i talebani e almeno 11 terroristi dell’Isis sono stati uccisi in due raid di droni americani nella provincia orientale di Nangarhar.

La presenza dell’Isis in Afghanistan, ormai da un paio d’anni, conferma se ce ne fosse bisogno che la questione afghana va compresa nella complessa questione della lotta mondiale al terrorismo ed è da questo concetto che bisogna partire quando si ragiona sulle missioni internazionali e sulle scelte da compiere. L’Italia è impegnata lì dal novembre 2001, quando da Taranto partì la flotta per l’allora missione Enduring freedom, ma il primo intervento di terra ci fu nel gennaio 2003 con il 9° reggimento alpini dell’Aquila (Brigata Taurinense). Oggi circa 50 uomini sono a Kabul nello staff del Comando dell’operazione e gli altri sono a Herat dove l’Italia comanda un contingente interforze presso il Train Advise Assist Command West. Il nostro è il secondo contingente dopo quello Usa e subito prima di quello tedesco, che conta 980 unità. Nell’audizione del 7 febbraio davanti alle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato sulle missioni internazionali, il ministro Roberta Pinotti ha spiegato che le nostre truppe si stanno spostando anche “a Farah per ampliare l’addestramento degli afghani” aggiungendo che “non c’è dubbio che in Afghanistan la situazione sia ancora luci e ombre”.

Le domande che periodicamente la politica italiana si pone sono: perché restare lì? Vale ancora la pena? E, se sì, con quanti militari? E’ uno dei temi sui quali posizioni speculative a fini elettorali dovrebbero essere bandite e ogni opinione dovrebbe tener conto dei dati di fatto. L’Italia aveva deciso di restare pur riducendo sensibilmente il contingente, sceso a circa 500 unità. L’inatteso aumento, con la prosecuzione ufficiale fino al 31 dicembre scorso, era stato annunciato dall’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi nell’ottobre 2015 spiegando che si trattava di una precisa richiesta di Barack Obama. L’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca costringe ad aspettare una valutazione del principale alleato e, dal punto di vista italiano, almeno l’insediamento del nuovo ambasciatore per un confronto nel merito. Il 9 febbraio il generale John Nicholson, comandante di Resolute support, ha detto alla commissione Forze armate del Senato americano che ha bisogno di diverse migliaia di soldati internazionali (non americani, internazionali) per sbloccare lo stallo nella guerra ai talebani e che la questione potrebbe essere presto discussa con Trump.

Che l’Italia possa ulteriormente aumentare il proprio contributo sembra escluso, anche perché ormai è il Mediterraneo l’area nella quale concentrare gli sforzi. Certamente una riduzione del contingente italiano, che andrebbe concordata con un alleato americano più “aggressivo” di prima, consentirebbe a Forze armate sotto stress di recuperare qualche centinaio di uomini senza abbandonare l’utile e apprezzato lavoro di addestramento. Ma la questione di fondo, a prescindere dai numeri e da Trump, non può essere ignorata: è possibile che tutti i contingenti occidentali tornino a casa lasciando che un paese dalle dimensioni enormi possa di nuovo essere una base del terrorismo internazionale? Oppure, è realistico che l’Italia cancelli del tutto il proprio impegno? Se la guerra in Iraq fu un errore, non si può dimenticare che la missione afghana fu una diretta conseguenza dell’11 settembre e l’avanzata dell’Isis anche lì dovrebbe preoccupare: l’Afghanistan rappresenta un rischio più vicino di quanto non appaia guardando un mappamondo.

 

 

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