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Che cosa ha detto (di non molto trumpiano) James Mattis in Iraq

Jim Mattis

L’amministrazione americana ha bisogno di un binario morbido che faccia da diplomazia per temperare alcune dichiarazioni del presidente: il caso del capo del Pentagono in Iraq alla vigilia del nuovo ordine esecutivo sull’immigrazione. James Mattis è volato a sorpresa a Baghdad, ha visitato gli alleati principali nella lotta allo Stato islamico, ha temperato alcune dichiarazioni della Casa Bianca e ha rassicurato i partner sull’executive order in preparazione (non vieteremo di entrare negli Stati Uniti a chi lavora per noi).

PRENDERE IL PETROLIO IRACHENO: LA (VECCHIA) BOMBA DI TRUMP

Il 7 settembre 2016, durante un’intervista televisiva sulla NBC il candidato repubblicano Donald Trump, che di lì a poche settimane avrebbe vinto le elezioni e sarebbe poi diventato presidente degli Stati Uniti, spiegò una sua teoria su quel che fare con l’Iraq. “Noi spendiamo miliardi, perdiamo vite umane, e cosa otteniamo in cambio? Nulla”, era l’affermazione in piena linea riequilibrio da America First: Trump si riferiva all’impegno militare che da anni Washington ha messo in campo al fianco del governo iracheno per combattere il terrorismo, ultima declinazione quello dello Stato islamico. L’idea del magnate repubblicano era: l’Iraq dovrebbe darci in cambio il suo petrolio per ripagarci, così contemporaneamente eviteremmo anche che finisca nelle mani dello Stato islamico (nota: il grosso dei pozzi iracheni si trova a sud, a migliaia di chilometri dalle terre ancora sotto il controllo del Califfato). Non era un’uscita estemporanea: già nel 2013 aveva espresso questa sua posizione durante una keynote speech al CPAC (un raduno annuale dei conservatori americani): non ruberemmo niente, ma semplicemente prenderemmo un rimborso, aggiungendo che alti ufficiali dell’esercito statunitense gli avevano confessato che in realtà le campagne militari americane avevano il petrolio come obiettivo. L’idea settembrina di Trump fu confutata da diversi esperti (una carrellata in questo pezzo del Guardian) che la bollarono sostanzialmente come un’inapplicabile politica neo-colonialista al di fuori del diritto internazionale. La linea era stata ripresa a gennaio, quando dalla hall del quartier generale della Cia Trump disse: “Avremmo dovuto prendervi il petrolio (intendeva prima del ritiro del 2011, ndr), ma forse avremo un’altra chance”.

MATTIS A FARE IL POLITICO IN IRAQ

Oggi il capo del Pentagono Mattis ha fatto una visita a sorpresa a Baghdad per segnare la vicinanza degli Stati Uniti all’alleato in un momento importante: domenica l’esercito iracheno ha lanciato lo scacco finale su Mosul, la capitale dell’IS, e gli americani forniranno protezione aerea. Ma Mattis a Baghdad ha avuto soprattutto un ruolo politico (di rassicurazione sotto la linea del doppio binario dell’amministrazione, ruolo toccato già al segretario di Stato e soprattutto al vicepresidente in altri contesti). L’esercito degli Stati Uniti non è in Iraq “per appropriarsi del petrolio di nessuno”, ha dichiarato Mattis con una linea molto decisa che rovescia alcune dichiarazioni del presidente: di solito noi paghiamo per le risorse naturali, ha detto per stemperare i toni. La partnership tra Baghdad e Washington sarà con ogni probabilità confermata dai nuovi piani americani per il 2017 (a giorni la presentazione) e dunque gli Stati Uniti cercano di rassicurare gli alleati. Anche sotto un altro punto di vista: il discusso ordine esecutivo su ingressi e immigrati. L’Iraq era uno dei sette paesi inseriti nel ban, il governo iracheno aveva reagito indispettito, e già ai tempi dell’emanazione dell’executive order dall’ambasciata americana a Baghdad (uno dei centri avanzati della lotta al terrorismo) avevano criticato la decisione presidenziale temendo di perdere la fiducia tra fonti e contatti: come fa una risorsa di intelligence che per passare informazioni agli americani rischia la vita a fidarsi, se Washington alza una legge che lo inquadra come potenziale terrorista impedendogli a prescindere di entrare in America? Mattis ha anticipato che nel nuovo provvedimento in fase di ultimazione dalla squadra legale della Casa Bianca sarà incluso un comma riguardo ai collaboratori.

IL NUOVO ORDINE

“Non ho ancora visto il nuovo ordine” ha detto Mattis, ma “io sono sicuro che prenderemo le misure per permettere a coloro che hanno combattuto al nostro fianco di essere ammessi negli Stati Uniti”. Parlando domenica al Security Summit di Monaco di Baviera, il segretario alla Homeland Security John Kelly ha detto che la nuova versione del provvedimento sarà “razionalizzata”: non è chiaro cosa questo significhi in termini pratici, ma secondo i media americani l’impalcatura del decreto dovrebbe essere la stessa del precedente, andando a limare i punti critici come la questione delle green card e quella di chi viaggia al momento dell’entrata in marcia della misura esecutiva. Attualmente l’e.o. è sospeso perché la corte d’Appello di San Francisco ha avallato la decisione del giudice federale dello stato di Washington James Robart che aveva chiesto la sospensione del decreto, allargandola a tutto il paese. Il presidente aveva reagito aggressivamente alla decisione, attaccando duramente i giudici, ritenendoli responsabili di aver indebolito la sicurezza nazionale con la loro decisione. “SEE YOU IN COURT”, “Ci vediamo in tribunale” (tutto in maiuscolo) aveva detto in un famoso tweet che è stato molto ripreso anche sul lato ironico perché è un modo buffo per minacciare un tribunale. Forse però con la parola “court” Trump intendeva la Corte Suprema, a cui avrebbe potuto fare appello finale l’amministrazione, decisione ventilata inizialmente e definitivamente mollata durante la settimana scorsa a favore di una nuova legge. Pare che anche Neil Gorsuch, il giudice conservatore che Trump ha scelto per la nomina a vita alla Corte Suprema, abbia preso le distanze dalle offese di Trump ai togati che hanno rimandato la sua legge: forse il presidente ha voluto evitare la bocciatura finale alla Corte cercando la via secondaria della ri-stesura?

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