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Ecco come e perché Trump rimbrotta Messico, Australia e Iran

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Intervenendo giovedì 2 febbraio al National Prayer Breakfast, il presidente americano Donald Trump ha sostanzialmente confermato, senza riferimenti espliciti, le voci uscite mercoledì a proposito di due sue sfuriate mentre era in conversazione telefonica con i leader di Messico e Australia: due dei momenti di un’intensa giornata (mercoledì) di lavoro del presidente americano, in cui hanno trovato posto minacce militaresche all’Iran e l’idea di eliminare i fanatici separatisti bianchi di programmi sui gruppi terroristici.

INVADIAMO IL MESSICO, PER SCHERZO

Partiamo dal Messico. Secondo quanto riportato dall’Associated Press, durante una conversazione telefonica con il presidente messicano Enrique Pena Nieto Trump avrebbe minacciato l’invio di militari americani oltre confine per bloccare il flusso di immigrati clandestini. Sono le stesse persone che nei piani della Casa Bianca andrebbero tenute fuori dagli Stati Uniti costruendo il famoso muro, su cui però la fatica più grossa (oltre al superare le aspre opposizioni di una larga fetta di opinione pubblica nazionale e internazionale) è quella di reperire i fondi. Presentare al Congresso a guida repubblicana la richiesta per una copertura miliardaria a un’opera così controversa è complicato, Trump vorrebbe la partecipazione del governo messicano (che, come scrive l’Atlantic, potrebbe non essere troppo in disaccordo), se non fosse che Nieto non vuol pagare. E l’idea lanciata e poi temperata della possibilità di applicare un’aliquota del 20 per cento sulle esportazioni per finanziare l’opera ha già fatto saltare un incontro di Stato tra i due leader programmato per il 31 gennaio. Mercoledì la Casa Bianca aveva inizialmente smentito il lancio dell’AP, dicendo che non era vero quanto lanciato sull’invio dei soldati in Messico, ma successivamente ha precisato che si era trattato di una battuta “scherzosa” fatta dal presidente mentre si parlava di come consolidare la collaborazione sui traffici al confine (di droga e di persone). Nota: si è trattato del secondo episodio di screzio tra Associated Press e la Casa Bianca nel giro di poche ore, in precedenza infatti c’era stato l’annuncio del giornalista Josh Lederman che aveva per primo segnalato che il presidente stava lasciando Washington senza preavviso (gli spostamenti di Potus sono tutti e sempre calendarizzati, e la stampa è sempre avvisata anche dei cambiamenti di programma). Poi si è scoperto che si stava recando alla Dover Air Force Base dove avrebbe reso omaggio alle esequie del Navy Seal rimasto ucciso nel blitz di domenica scorsa contro al Qaeda nello Yemen.

IL TELEFONO CHIUSO IN FACCIA ALL’AUSTRALIA

In un’altra conversazione telefonica, sempre mercoledì, Trump avrebbe sbattuto il telefono in faccia al premier australiano Malcolm Turnbull. Tema ufficiale della litigata un accordo stretto dall’amministrazione Obama secondo cui l’America si sarebbe fatta carico di circa 1250 rifugiati a cui l’Australia non aveva concesso asilo (salvo superamento dei processi di “vetting”, verifica, diceva l’accordo, ma adesso tutto salterà anche perché molti sono mediorientali e vengono da quei paesi bannati). I più smaliziati ritengono che dietro potrebbe però esserci dell’altro. L’Australia è un alleato storico americano, pezzo di quell’anglosfera a cinque occhi del FVEY che va ricostituendosi attraverso il rafforzamento del feeling pro-Brexit intesa con Londra. Ma Canberra ultimamente ha fatto una mossa che non è certamente piaciuta a Trump. Dopo il ritiro degli Stati Uniti dal Tpp, l’accordo commerciale dell’area pacifica, gli australiani avrebbero iniziato a muovere le carte per continuare nella costruzione dell’intesa anche senza gli americani, ma aprendo alla possibilità di inclusione della Cina. Pensare che quel trattato era stato pensato dall’America (obamiana) per tagliare fuori Pechino, pensare che la Cina è il principale e dichiarato nemico globale di Trump, pensare che Trump avrebbe voluto muovere con gli alleati regionali (con Australia e Giappone in primis) relazioni bilaterali, è sufficiente per capire quanto il presidente americano possa essere rancoroso nei confronti del capo di governo australiano. E in qualche modo potrebbe voler fargliela pagare.

L’IRAN È UFFICIALMENTE AVVISATO

Nello stesso giorno la Casa Bianca ha diffuso una nota del Consigliere per la Sicurezza Nazionale Michael Flynn sulle “recenti azioni iraniane” che si chiude con un sufficientemente esplicito “adesso l’Iran è ufficialmente avvisato”. La scorsa settimana Teheran aveva effettuato il test di un missile balistico che gli Stati Uniti considerano “provocatorio”, in quanto viola una risoluzione Onu ed è anche una sottile violazione dell’accordo sul nucleare. Probabilmente non sbagliano, il sentimento anti-americano in Iran è forte, ricambiato da molti dei top funzionari di Trump, e l’acredine è aumentata con il ban che impedisce agli iraniani gli ingressi negli Stati Uniti per 90 giorni, considerando la Repubblica islamica un paese sponsor del terrorismo. Da qui: Flynn include in quelle “recenti azioni iraniane” anche un attacco kamikaze con un barchino esplosivo fatto dai guerriglieri Houthi contro una nave militare saudita sul Mar Rosso davanti allo Yemen. Il capo del rimpastato National Security Council definisce i separatisti yemeniti un gruppo “armato e addestrato dall’Iran”. Due giorni fa Fox News, rete conservatrice, con un articolo che parte in modo esplicito, “un attacco suicida appoggiato dall’Iran ha colpito una fregata suadita”, ha dato un peso aggiuntivo alla vicenda. Nel pezzo due funzionari del Pentagono spiegano che l’obiettivo dell’attacco avrebbe dovuto essere un nave americana (stile “USS Cole”). L’informazione esce da dati di intelligence raccolti che però non sono troppo convincenti. Per esempio, il canto che si sente nel video dell’azione che recita “Allahu Akbar! Morte all’America! Morte a Israele!”, ma si fa notare che quello è un canto tipico di attacco dei tempi di Khomeini, ripreso dagli Houthi (che sono anti americani a sufficienza) stile grido di battaglia, e dunque questo non basta per giustificare la volontà di colpire un obiettivo americano; visto tra l’altro che nella narrativa fanatica spesso i sauditi vengono descritti come “servi” dell’America, oppure avrebbero voluto colpire anche gli Israeliani. In più, il collegamento tra gli Houthi, che combattono una guerra separatista in Yemen contro un coalizione guidata dall’Arabia Saudita, e l’Iran è a tratti vago. È noto che Teheran fornisce armi ai miliziani, di cui si considera protettore ideologico (usandoli anche come vettori contro i sauditi), ma è altrettanto vero che i combattenti yemeniti mantengono un’agenda locale piuttosto sganciata dagli interessi regionali dell’Iran. C’è una linea da seguire anche in questo caso. Le dichiarazioni di Flynn arrivano dopo due importanti telefonate, una tra Trump e il re Salman e un’altra tra il capo del Pentagono Jim Mattis e il potentissimo vice principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. Le due conversazioni hanno avuto come obiettivo un riavvicinamento dei due paesi, già sintetizzato in un’annuncio saudita di investimenti nel settore petrolifero americano, e forse dietro alla politica dura contro Teheran c’è anche questo gioco di sponda, considerando l’odio esistenziale del Regno sunnita con la Repubblica sciita. Ultime notizie: la Reuters dice che venerdì Washington solleverà nuove sanzioni contro l’Iran.

RIVEDERE CHI SONO I TERRORISTI E CHI NO

Di terrorismo, allora. Sempre nello stesso giorno cinque funzionari informati sui fatti hanno detto alla Reuters che Trump vorrebbe rinominare e rimodellare il Countering Violent Extremism (CVE), il programma con cui le agenzie monitorano le ideologie estremiste e tendenzialmente violente, in collaborazione anche con Google e Facebook. Il nuovo nome sarà Countering Islamic Extremism, ed è chiaro che l’unico focus sarà il terrorismo radicale islamico. Il programma è parallelo a quello militare, e in molti lo ritengono un elemento di relativa efficacia (i repubblicani al Congresso lo hanno criticato perché troppo politicamente corretto, e non mette “l’Islam radicale” in testa agli obiettivi). È possibile che la modifica al nome e alle linee guida potrebbe incontrare le proteste di credenti musulmani, che già sono in rivolta per le politiche prese da Trump su ingressi e immigrazione. Tutto va sommato al fatto che con i cambiamenti il programma non avrebbe più come target i gruppi suprematisti bianchi, che hanno effettuato anche attentati e sparatorie negli Stati Uniti. È famoso l’intervento di Richard Spencer, uno dei volti dell’alt-right, la destra estremista americana, che brinda alla vittoria di Trump con “Heil Trump! Heil our people! Heil victory!” durante l’incontro annuale del National Policy Institute, il think tank nazionalista (o meglio dire Nazi) che dirige. Negli Stati Uniti, prima dell’attentato di Orlando, negli ultimi 15 anni (dopo il 9/11) gli attacchi dei suprematisti bianchi aveva fatto più morti del terrorismo jihadista.


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