Ancora Raggi. Ancora i grillini. L’una e gli altri continuano a tenere la scena, benchè l’Italia abbia obiettivamente tanti altri problemi più seri e più grandi. E benchè sul piano più strettamente politico, o partitico, come preferite, la scena dovrebbe essere occupata di più dalle vicende del Pd, che è pur sempre il partito di maggioranza relativa, dal quale non si può prescindere per la governabilità del Paese. Com’era una volta per la Dc, ai tempi del sistema elettorale proporzionale al quale si sta d’altronde tornando, col partito guidato oggi da Matteo Renzi che ha preso il posto dello scudo crociato, ma sta letteralmente esplodendo. Il movimento grillino di certo ne insidia il primato elettorale, ma per gioco, per quanto paradossale possa sembrare una simile opinione.
Il carattere puramente ludico, e non concreto, della gara ingaggiata da Grillo e dai suoi, sicuri di poter raggiungere addirittura il 40 per cento dei voti alla prossima occasione, nonostante i casini –scusate il termine- del Campidoglio e dintorni, sta nel fatto che essi rifiutano ogni ipotesi di alleanza o collaborazione con altri. E da soli, per quanti errori possano o vogliano commettere gli avversari nel confezionare i dettagli della legge elettorale, o leggi al plurale, con cui si andrà prima o dopo alle urne per rinnovare le Camere elette quattro anni fa, i pentastellati non potranno mai fare un governo capace di ottenere la fiducia dei due rami del Parlamento: due, perché proprio i grillini hanno voluto e contribuito in modo decisivo, sottovalutando la partita per fortuna degli altri, alla bocciatura della riforma costituzionale. Che avrebbe lasciato solo ai deputati la prerogativa di fiduciare e sfiduciare i governi. Quei presunti geni a 5 Stelle avevano l’occasione della loro vita a portata di mano e se la sono fatta scappare.
Questa forse è l’unica consolazione che può permettersi Renzi, apparentemente l’unico sconfitto del referendum del 4 dicembre. Che gli è già costata la presidenza del Consiglio e potrebbe costargli anche la segreteria del partito, per come si sono messe e stanno continuando a mettersi le cose nel Pd. Dove il clima è ormai tale che il buon Walter Veltroni, il cofondatore – con Piero Fassino e Francesco Rutelli – e primo segretario del partito che ha fuso post-comunisti e post-democristiani, soprattutto di sinistra, il sabato scrive il suo appuntamento domenicale con i lettori della pericolante Unità e gli altri giorni conta e riconta i club della serie A del campionato nazionale di calcio per vedere se gli riesce di assicurarsi il solo voto che gli manca per ottenere l’elezione a presidente della relativa Lega, con il quorum prescritto dallo statuto.
Della corsa dei compagni alla segreteria del Pd mi pare che ormai a Veltroni non glene freghi più nulla. E non si può neppure non comprenderne le ragioni, dopo tutte le delusioni da lui ricevute nell’anno e mezzo trascorso fra la sua elezione a segretario e le dimissioni impostegli dalle solite faide interne. “Adesso è inutile che continuiamo a farci del male”, disse Walter lasciando tutto nel mese di febbraio del 2009, dopo qualche anno anche il Parlamento.
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I grillini, dicevo, nonostante il dramma del partito di maggioranza relativa, dove sembrano essere più quelli in procinto di andarsene che quelli decisi a rimanervi, e forse solo per continuare a sgambettarsi a vicenda, tengono fortemente la scena. E sono così bravi- bisogna riconoscerlo – da rovesciare sugli altri, in particolare sui giornali, i soliti giornali, i veleni delle loro faide interne. I piddini – bisogna riconoscere anche questo- sono più onesti o leali, come preferite. Se le stanno dando di santa ragione, fra un Massimo D’Alema che se ne va e un Michele Emiliano che cerca di prenderne il posto dentro il campo da gioco del partito contendendolo ai vari Pier Luigi Bersani, Roberto Speranza e Miguel Gotor, ma almeno sinora non hanno scaricato sui giornali la responsabilità della loro incapacità di stare insieme senza menarsi, a volte neppure metaforicamente.
Nel blog di Grillo è appena toccato al Corriere della Sera di prendersi la ramanzina del giorno per come ha raccontato le vicende pentastellate e quelle, più in particolare, della sindaca di Roma. Che, forse inconsapevole – anche questa volta, come nel caso delle polizze del suo ormai ex capo della segreteria Salvatore Romeo – degli umori di “Beppe”, come lei chiama il suo Garante, con la maiuscola, è proprio al Corriere che ha rilasciato la sua intervista per annunciare la “nuova fase” della sua sinora sfortunata amministrazione. C’è stata – ha detto la Raggi – una “falsa partenza”, ma adesso le cose si metteranno a posto. Anzi, sono già a posto, col bilancio approvato prima di quelli di Milano e non so di quante altre città, con l’appalto imminente per liberare i romani dalle buche e con i 430 milioni di euro, non di lire naturalmente, investiti per i dissestatissimi trasporti.
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Dell’inchiesta che ancora pende sul suo capo, dopo ben otto ore di interrogatorio, per abuso d’ufficio e falso la sindaca Raggi ormai neppure parla più, tanto è sicura evidentemente di uscirne a testa alta. Come gli inquirenti si sono affrettati a farla uscire dalla vicenda delle polizze di Romeo a suo favore, di cui hanno certificato la irrilevanza penale, essendo state stipulate a suo beneficio sì, ma anche a sua insaputa. Come in realtà può accadere per i beneficiari di polizze assicurative fatte con finalità d’investimento e, quindi, di rendita: polizze che rimangono nella totale disponibilità di chi le contrae, e in genere pensa di usarle ben prima di morire.
Di queste polizze, d’altronde, anche se gli inquirenti ne hanno parlato con la sindaca nell’interrogatorio, facendole domande e assistendola quando è svenuta, o quasi, almeno secondo le cronache, non si sarebbe neppure saputo nulla se a divulgarle non fossero stati i giornali, in particolare due, fra i quali uno che non si può certamente sospettare di antigrillismo o antiraggismo: Il Fatto Quotidiano. Che si è appena compiaciuto curiosamente di annunciare, con bel titolo di prima pagina, che l’attenzione riservata in modo eccessivo dalla stampa –sentite, sentite- “ricompatta le arcinemiche Raggi e Lombardi”, intendendosi per quest’ultima la parlamentare pentastellata che individuò in Raffaele Marra, allora braccio destro o sinistro della sindaca di Roma, “il virus” che infettava il movimento. E che all’annuncio dell’arresto dello stesso Marra, quasi due mesi fa, uscì o entrò nell’albergo di Roma dove si trovava Beppe Grillo, con vista sui Fori e sul Campidoglio, ostentando ai giornalisti l’atteggiamento di chi voleva dire: “L’avevo detto io”.
Non aveva forse neppure tutti i torti, la Lombardi, vista la posizione in cui Marra si trovava in quel momento. E da cui, per carità, potrebbe anche uscire prima o dopo meglio di come vi fosse entrato a metà dicembre, perché il processo per gli episodi di corruzione risalenti alla precedente amministrazione comunale è ancora da fare. Non saremo certamente noi a confonderci con il giustizialismo purtroppo di casa fra i grillini quando i processi riguardano i loro avversari, presunti o reali che siano.