Corre voce che sia in corso un tentativo di mediazione sui temi del voucher e della responsabilità in caso di appalto allo scopo di evitare i referendum. Nel caso dei buoni-lavoro la chiave di volta sarebbe quella di ripristinare la normativa introdotta dalla legge Biagi, limitatamente alle prestazioni meramente occasionali e mediante un confronto con la Cgil, a cui spetterebbe l’ultima parola; prima ovviamente che si pronunci la Corte di Cassazione, che è il solo organo competente a certificare la congruità delle modifiche legislative ad accogliere le istanze dei promotori del referendum. Essendo il quesito, proposto ed ammesso, di carattere totalmente abrogativo non è detto che la Suprema Corte si accontenti dell’eventuale benestare della Confederazione di Susanna Camusso.
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Il vero problema non è quello di abbassare a 5mila euro annui (rispetto gli attuali 7mila) il tetto annuo complessivo. L’importo medio dei voucher non arriva a 500 euro netti all’anno. Solo il 2,2 % ha superato i 2mila euro. Credo che ben pochi percettori di voucher in Italia siano mai arrivati ad incassare la somma di 7mila euro. Un rapporto del Ministero del Lavoro ha evidenziato, infatti, che «non sembra avere avuto effetto significativo l’aumento a 7mila euro del compenso complessivo per singolo lavoratore introdotto a giugno del 2015 con il D.Lgs. 81. Il 64,8% dei prestatori ha riscosso nel 2015 meno di 500 euro di valore complessivo. Il 20% ha superato i mille euro». Il rapporto sottolinea, inoltre, che i settori in cui l’uso dei voucher risulta più significativo sono il commercio, il turismo e i servizi, e che il settore agricolo si colloca all’ultimo posto. Per quanto concerne – la considerazione serve a fare chiarezza – l’effetto di sostituzione di precedenti rapporti di lavoro, il rapporto ministeriale mette in luce che, nel 2015, solo il 7,9% dei lavoratori retribuiti con voucher avevano avuto nei tre mesi precedenti un rapporto di lavoro (la percentuale sale al 10% se si prende a riferimento un periodo di sei mesi). Dall’analisi compiute, il rapporto trae la conclusione che «i dati relativi al 2015 non mostrano, comunque, una crescita del dato successiva al riordino dei contratti operato a giugno col D.Lgs. 81/2015: le percentuali di sostituzione, anzi, da luglio decrescono.». È dunque difficile ipotizzare – sottolinea il Ministero – che il lavoro accessorio abbia rappresentato un’alternativa rispetto ad altre forme di rapporto di lavoro, se non eventualmente per il settore turistico con l’avvertenza che le prestazioni lavorative compensate con i voucher potrebbero essere state precedentemente rese nell’ambito di un contratto di lavoro intermittente o addirittura in modo irregolare.
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Vogliono vietarne l’uso in edilizia? Sarà come uccidere un uomo morto visto che in quel settore viene erogato soltanto il 3% dei totale dei buoni-lavoro. L’evasione in edilizia si svolge attraverso un finto decentramento e l’utilizzo di titolari di partite IVA. Sarebbe sbagliato invece abolirne l’uso in agricoltura, dove il fenomeno non è consistente mentre si tratta del comparto in cui i voucher hanno contribuito di più a contrastare il lavoro nero. Sarebbe un errore ritornare pedissequamente a quanto previsto dal decreto applicativo della legge Biagi che riservava – in via sperimentale – questo strumento alla remunerazione di prestazioni occasionali agricole svolte da pensionati e da studenti. La stessa proposta della Cgil, contenuta nella Carta dei diritti è molto più aperta per quanto riguarda i settori in cui è possibile avvalersi dei voucher. Al solito si finisce sempre per essere più realisti del re.
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Nel suo ruolo di Presidente della Commissione Lavoro della Camera e come persona indubbiamente competente, si occupa della revisione della normativa dei buoni-lavoro Cesare Damiano. Speriamo che abbia più fortuna questa volta di quando, da ministro del Lavoro del governo Prodi 2, affrontò la questione dei call center in nome della lotta alla precarietà. Le soluzioni che allora furono trovate (ed imposte alle società) nel giro di pochi anni hanno determinato una delocalizzazione imponente all’estero, con la perdita di tanti posti di lavoro da noi.