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Ecco la vera sfida che Matteo Renzi ha lanciato dal Lingotto di Torino

Anche del discorso di Matteo Renzi al Lingotto per riproporsi alla segreteria del Pd si potrebbe dire ciò che osservammo qui, su Formiche.net, quando l’allora presidente del Consiglio affrontò il referendum sulla riforma costituzionale annunciando che avrebbe considerato chiusa la sua esperienza politica se avesse perso. Ci chiedemmo allora se egli fosse più coraggioso o imprudente, avvertendo che solo i fatti avrebbero potuto dare la risposta. Fu imprudente, vista non solo la sconfitta del 4 dicembre, ma anche la sua dimensione. Quella ventina di punti di distacco fra i no e i si fu un’enormità superiore anche alle previsioni dei vincitori.

Ciò nonostante, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella offrì a Renzi una rete di sicurezza: il rinvio alle Camere dopo le dimissioni da presidente del Consiglio, ma non anche da segretario del partito, per ottenere col rinnovo scontato della fiducia la legittimazione ammaccata dalla disfatta referendaria. Ma lui rifiutò commettendo forse un altro errore, rimproveratogli su Repubblica da Eugenio Scalfari, che aveva condiviso, se non addirittura consigliato, la linea del capo dello Stato.

Renzi preferì un orgoglioso ritiro da Palazzo Chigi scommettendo su un ritorno a breve, legittimato da un Parlamento non in scadenza ma nuovo di zecca, magari eletto anche in anticipo. E fu un’altra sfida, tradottasi dentro il suo partito in uno scontro col grosso della sinistra e nella scissione.

Come in una matrioska, le scommesse o sfide di Renzi non sono una dopo l’altra, ma una dentro l’altra. Quella che lui ha lanciato dal Lingotto è la sfida del doppio incarico, cioè la somma dei mandati di segretario del partito e di presidente del Consiglio. E il conseguente rifiuto della proposta dei due concorrenti -Michele Emiliano e Andrea Orlando, in ordine rigorosamente alfabetico- di separare le due cose.

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Il doppio incarico, che Renzi ha già esercitato nei mille e più giorni del suo primo governo, sta -è vero- nello statuto del Pd, concepito però nel contesto, che è invece cambiato, di un sistema elettorale maggioritario e di coalizioni formate prima del voto, per essere confermate e premiate con un supplemento di seggi parlamentari a chi vince. Un sistema -aggiungo- che Renzi con la riforma costituzionale e la prima versione dell’Italicum, in quello che fu chiamato il “combinato disposto”, voleva rafforzare. A questo infatti miravano la fiducia al governo riservata alla sola Camera, il ridimensionamento del Senato e il premio di maggioranza comunque garantito alla lista più votata: o  già al primo turno, con almeno il 40 per cento dei consensi, o al ballottaggio fra le prime due classificate.

Ebbene, questo scenario maggioritario è stato letteralmente spazzato via prima dalla bocciatura referendaria della riforma costituzionale, che ha quindi confermato l’impianto proporzionale -diciamo la verità- della Costituzione approvata alla fine del 1947, e poi dalla sforbiciata della Corte Costituzionale al ballottaggio dell’Italicum, per cui il premio  di maggioranza a turno unico col 40 per cento dei voti alla lista più votata è nelle condizioni attuali della politica italiana, e dei suoi partiti, una semplice chimera. Se ne renderanno anche i grillini che spavaldamente vi puntano.

In un sistema elettorale proporzionale verso il quale stiamo tornando- salvo improbabili risvegli maggioritari del Parlamento in via di scadenza modificando, come chiede il capo dello Stato, le due leggi, uscite entrambe dalla sartoria della Consulta, che  disciplinano diversamente l’elezione dei deputati e dei senatori- il doppio incarico può essere un intralcio, se non addirittura un elemento ostativo alla formazione di governi di coalizione da negoziare fra il partito più votato e altri disposti ad allearvisi dopo le elezioni.

Nella cosiddetta, lunga prima Repubblica il doppio incarico non a caso fu politicamente fatale ad entrambi e unici segretari del partito più votato, la Dc, che vollero tentarne l’avventura: prima Amintore Fanfani, rovesciato nel 1959,  e poi Ciriaco De Mita, rovesciato nel 1989.

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Renzi ha detto che nei suoi mille e più giorni del suo governo egli ha strappato all’Unione Europea una certa flessibilità nella gestione dei conti per la garanzia di stabilità che gli derivava dalla guida del partito, il più votato peraltro nella famiglia del Partito Socialista Europeo. Storie, diciamo la verità. Anche perché non sappiamo quale sarà lo scenario politico dell’Europa dopo le elezioni in programma entro un anno in Francia, Olanda, Germania e infine proprio in Italia. Non mi pare proprio che il vento soffi sulle vele della sinistra: tutt’altro, specie se consideriamo gli effetti del trumpismo proveniente dall’Atlantico.

L’ambizioso progetto renziano del doppio incarico dopo le elezioni dovrà fare i conti a destra, o al centro, come preferite, con l’antirenzismo di Silvio Berlusconi seguito alla rottura del famoso Patto del Nazareno, e a sinistra con l’antirenzismo non certo domato dei fuoriusciti dal Pd e dai compagni che li aspettavano per adottare come sigla del loro nuovo partito il rovescio, in tutti i sensi, di quello di Renzi: Dp.

A Berlusconi riuscirebbe forse più digeribile un governo guidato da Paolo Gentiloni, che ne ha difeso le aziende dalla scalata di Vivendi e si accinge a difenderne il ministro Luca Lotti al Senato dall’assalto grilloleghista. Alla sinistra esterna al Pd potrebbe risultare più congeniale un governo guidato, per esempio, dal concorrente di Renzi alla segreteria Andrea Orlando. Di Michele Emiliano neppure parlo, almeno sino a quando non si deciderà a scegliere fra magistratura e politica.

In un sistema elettorale proporzionale il segretario del partito di maggioranza rappresenta e difende l’identità del partito, il presidente del Consiglio provvede a raccordare i rapporti di governo con gli alleati di turno. Renzi, si sa, è portato a forzare e accentrare le cose, ma non gli è andata sempre bene. Direi, anzi, che dopo una partenza a razzo gli è andata abbastanza male.

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