Terminato il raduno renziano del Lingotto con la rappresentazione plastica del legame politico e personale fra il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, accolto a Torino con una ovazione, e il suo predecessore a Palazzo Chigi, a dispetto di tutte le manovre per metterli l’uno contro l’altro, o solo per distanziarli, resta ora da capire il rapporto che potrà o dovrà crearsi fra un Pd tornato sotto la guida di Matteo Renzi e il nuovo, esordiente “Campo progressista”. Che è stato presentato nel teatro romano del Brancaccio dall’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia proprio in coincidenza col raduno torinese.
Uomo assai educato e colto, cosa che non guasta nel panorama politico italiano, mite di carattere ma fermo nelle sue convinzioni, Pisapia ha assicurato di non avere voluto creare “un partitino” con la sua iniziativa. E di non volerlo creare neppure in un secondo momento. E fa bene, perché di partiti e partitini ce ne sono anche troppi: tanti che per proteggerne l’esistenza, e persino l’ulteriore proliferazione, si è ormai buttato alle ortiche il sistema elettorale maggioritario, sia pure all’italiana, che ha alimentato la cosiddetta seconda, e deludente, Repubblica.
Sono due i colpi di grazia dati alla seconda Repubblica di stampo maggioritario. Il primo è stato inferto dagli elettori con la bocciatura referendaria della riforma costituzionale studiata in funzione, appunto, maggioritaria. Il secondo è stato inferto dalla Corte Costituzionale, che ha reso proporzionale, con quel premio di maggioranza alla lista e a soglia praticamente irraggiungibile del 40 per cento in un solo turno, il cosiddetto Italicum. E ciò dopo avere reso proporzionale anche la legge rimasta in vigore solo per l’elezione del Senato, sopravvissuto al referendum del 4 dicembre.
Il giudice costituzionale Giuliano Amato, ex di tantissime cose, ha recentemente concesso, bontà sua, al Parlamento ormai in scadenza di poter mettere elementi di maggioritario nelle leggi elettorali esistenti perché questo non è stato impedito dalla Corte di cui egli fa parte. Ma il mio amico Giuliano è troppo esperto di politica, avendo peraltro fatto due volte il capo del governo, e troppo sottile nelle analisi – come dice il soprannome, al maiuscolo, che porta meritatamente da tantissimo tempo – per non sapere che a questo punto, con la frammentazione partitica che c’è, e il cosiddetto tripolarismo creato dall’irruzione parlamentare dei grillini, i suoi auspici, o desideri, o tolleranze di spirito maggioritario sono solo virtuali.
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Ma torniamo al buon Pisapia, di cui – per inciso -vorrei anche ricordare a suo merito l’ostilità guadagnatasi negli ambienti giudiziari ai tempi di Romano Prodi a Palazzo Chigi, quando si prospettò per lui, esponente della Rifondazione Comunista di Fausto Bertinotti, la nomina a Guardasigilli. Sarebbe stato un ministro della Giustizia perfetto. I signori procuratori e giudici non avrebbero potuto disporre del dicastero di via Arenula come sono stati abituati purtroppo già dai tempi del pur buon Giuliano Vassalli, socialista. Che permise loro nel 1988 di vanificare con una legge sottovalutata gravemente anche da Bettino Craxi la responsabilità civile delle toghe voluta dagli elettori in un referendum stravinto pochi mesi prima.
L’obiettivo dichiarato dall’ex sindaco di Milano, cui ha voluto affiancarsi subito la presidente della Camera Laura Boldrini, è di favorire la formazione di un governo di centrosinistra “ampio”, comprensivo cioè della maggior parte della diaspora della sinistra aggravatasi con la scissione del Pd. Un centrosinistra che tanto più potrà essere ampio quanto meno potrà consentire la partecipazione di quegli elementi di centrodestra che hanno consentito in questa legislatura al Pd di governare il Paese. Addio, quindi, ad Angelino Alfano e a Denis Verdini, già indigesto prima della sua condanna in prima istanza a 9 anni di carcere per bancarotta e altro, figuriamoci dopo. Ma addio anche ad un recupero di Silvio Berlusconi nel caso in cui dovesse rompere davvero, e finalmente, con la lega lepenista di Matteo Salvini e della sua coda costituita dai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.
D’altronde, non è solo a sinistra che un’intesa di governo con Berlusconi procura l’orticaria. Il professore Angelo Panebianco, non sospettabile certamente di simpatie per la sinistra, almeno per quella necessaria ad un centrosinistra “ampio” come vorrebbe l’ex sindaco di Milano, ha appena scritto sul Corriere della Sera che “fra tutte le coalizioni, la più balzana sarebbe fra il Pd e Forza Italia”.
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Il progetto di Pisapia non è per niente scartato, almeno per ora, dai renziani di edizione Lingotto, il cui leader ha appena scoperto il fascino anche del termine “compagno”, dopo aver portato lui il Pd nella famiglia del socialismo europeo, e non il Veltroni o il Bersani di turno.
C’è chi, fra i renziani, come ha appena annunciato in un titolo di prima pagina Repubblica, vorrebbe offrire a Pisapia una candidatura al Parlamento nelle liste del Pd. Ciò peraltro gli consentirebbe, una volta eletto, di trovarsi persino nella condizione di guidare lui un governo di coalizione di centrosinistra “ampio”, se Renzi dovesse rinunciare al proposito dichiarato o confermato proprio al Lingotto di ripetere l’esperienza del doppio incarico di segretario del partito e presidente del Consiglio. Un proposito che si è fatto obiettivamente difficile nel quadro politico prodotto dal referendum di dicembre e dalla scissione del Pd.
Pisapia ha solo dieci anni in meno di Prodi: troppo poco per considerarlo quell’edizione “giovanile” del presidente del Consiglio dell’Ulivo auspicata da Pier Luigi Bersani prima di lasciare il Pd con Massimo D’Alema e compagnia bella. Ma di certo egli potrebbe riuscire più di altri a tentare l’assemblaggio governativo dei tanti pezzi sparsi della sinistra, ai quali ha già ricordato che non possono scambiare il Pd per “il nemico”.
Se poi una coalizione del genere, presieduta o no da Pisapia, sia la più adatta a governare l’Italia in questo mondo e in questa Europa che sembra andare più a destra che a sinistra, è naturalmente tutto da vedere.