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Elogio di Marco Minniti per l’ordine inusuale a Roma

Il ministro dell’Interno Marco Minniti, che poi all’anagrafe si chiama Domenico, quasi coetaneo dei trattati europei firmati a Roma tre mesi prima che lui compisse un anno nella sua Reggio Calabria, deve avere tirato un liberatorio e orgoglioso sospiro di sollievo alla fine del bellissimo sabato primaverile del 25 marzo di questo 2017 nella Capitale d’Italia.

Tutto si è svolto in un ordine davvero inusuale per la città dei sette colli, dove ne abbiamo viste di tutti i colori da molti anni a questa parte ogni volta, o quasi, venisse in testa a qualche centro sociale di metterne a ferro e a fuoco centro e periferie, con i più diversi pretesti.

Pazienza se i soliti disfattisti, a sinistra ma anche a destra, in una sintonia che si ripete da tempo e la dice lunga sulla confusione politica italiana, piuttosto che riconoscere al ministro dell’Interno il merito di avere saputo ordinare e organizzare un uso accorto delle forze dell’ordine, hanno attribuito la calma nelle quali si sono svolte le celebrazioni e si sono snocciolati i cortei alla “indifferenza” del popolo per l’Europa.  Contro la quale ormai non varrebbe più la pena neppure protestare in piazza, tanto sarebbe inutile.

L’europarlamentare Barbara Spinelli, figlia del mitico Altiero, autore con Ernesto Rossi del manifesto europeista di Ventotene,  che fu scritto mentre ancora l’Europa bruciava per la guerra, è riuscita ad attribuire l’indifferenza della gente anche alla “impunità” celebrata di recente dal Senato salvando dalla decadenza quel grande e pericoloso criminale che sarebbe Augusto Minzolini. E vi pareva? Naturalmente, le ha dato perfettamente ragione sul Fatto Quotidiano il direttore Marco Travaglio. Che nei giorni scorsi aveva avvertito il presidente del Senato, quello della Camera e persino il capo dello Stato che la storia di Minzolini “non finisce qui”. E neppure con le dimissioni che il senatore non decaduto sta per presentare, coerentemente con la promessa fatta prima del voto di salvataggio ma con la furbizia di chi sa che per consuetudine l’assemblea le respingerà almeno in prima battuta. E per le successive non ci sarà prevedibilmente il tempo perché la legislatura è più di là che di qua.

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Dovremo forse a Minzolini, e alla nausea che sarebbe riuscito a provocare nel paese con quei 19 senatori del Pd che a scrutinio palese lo hanno salvato dalla decadenza, riservata invece nell’autunno del 2013 al suo amico e capo Silvio Berlusconi, colpiti entrambi da una condanna definitiva, l’uno per peculato e l’altro per frode fiscale, anche l’aumento della popolarità di Papa Francesco. Che -ha osservato Travaglio- è riuscito a raccogliere a Milano, per quanto sia l’ultimo monarca assoluto d’Europa e forse anche del mondo, un entusiasmo umiliante per le strade e le piazze di Roma deserte, o percorse di malavoglia dai pochi rassegnatisi a sfilare con bandiere e striscioni.

Figuratevi se Eugenio Scalfari, pur evitando fortunatamente di usare l’argomento in funzione antieuropea, lui poi che è un europeista arciconvinto, si lasciava scappare l’occasione della visita del Papa a Milano per compiacersi del suo successo e ribadire la vecchia convinzione che Francesco sia “il più moderno, il più rivoluzionario, il più convinto della fede e della sua modernità”.

Una telefonata amichevole di ringraziamento del Papa al fondatore di Repubblica è garantita, dopo quella di una ventina di giorni fa raccontata dallo stesso Scalfari ai suoi lettori per rivelare l’ansia europesista del Pontefice di nazionalità argentina ma origine italiana. “Sbrigatevi, per l’Europa il tempo stringe”, ha detto testualmente Francesco all’amico, accomunandolo generosamente ai 27 leader dell’Unione attesi allora a Roma per la dichiarazione di augurabile rilancio da firmare nella stessa sala capitolina dove erano stati sottoscritti i trattati del 1957: cosa poi regolarmente avvenuta, e completata con l’appuntamento che il presidente della Commissione europea ha ottimisticamente dato ai suoi successori per la celebrazione del centenario.

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Matteo Renzi naturalmente, impegnato nella sua campagna congressuale per essere rieletto segretario del Pd nelle primarie di fine aprile, si è tenuto lontano dalle cerimonie capitoline che proprio lui aveva cominciato a preparare nei mesi scorsi da presidente del Consiglio, prima che la clamorosa sconfitta nel referendum del 4 dicembre sulla riforma costituzionale non lo allontanasse da Palazzo Chigi, sia pure per scelta volontaria, contro i ripetuti inviti del capo dello Stato a rimanere e a lasciarsi rilegittimare da una scontata conferma della fiducia parlamentare.

Durante la sfortunata, sfortunatissima campagna referendaria sulla riforma costituzionale, prima che le certezze della vittoria cominciassero a sfumare, Renzi aveva parlato più volte, anche nei suoi comizi, dell’appuntamento europeo di fine marzo a Roma come dell’occasione buona perché lui potesse porre sul tappeto il problema della revisione dei vecchi trattati. E, immaginandosi rafforzato dalla vittoria referendaria, aveva pensato che non avrebbero certamente potuto resistergli più di tanto un presidente francese arrivato alle sue ultime settimane di mandato, non avendo potuto neppure ricandidarsi alle elezioni di maggio, e una cancelliera tedesca ancora forte, di certo, ma pur sempre in scadenza anche lei, per quanto in autunno.

Invece il destino, al netto di tutti gli errori che lui stesso ha commesso facilitandone il corso negativo, aveva già assegnato a Renzi il ruolo del grande assente, se non del convitato di pietra, che è qualcosa di più. E ciò almeno nell’ambito della famiglia europea, perché se allunghiamo lo sguardo dobbiamo ricordarci che l’Europa, ammesso e non concesso che riesca a mettere ordine al suo interno all’ombra di quel documento appena sottoscritto dai 27 soci in Campidoglio, dovrà poi continuare a fare i conti con quel curioso e imprevedibile presidente americano che è Donald Trump: un convitato di pietra davvero ingombrante.

Non è neppure detto che Matteo Renzi, guardandosi lo spettacolo in televisione, in diretta o in differita, grazie a qualche registrazione, abbia potuto riconoscersi appieno nell’amico Paolo Gentiloni, da lui stesso voluto a Palazzo Chigi dopo le dimissioni per la sconfitta referendaria.

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