“La Ue festeggia i 60 anni del Trattato di Roma e si offre una parentesi al sole”: Le Monde ha usato il tono giustamente disincantato per raccontare la solenne cerimonia in Campidoglio. Che cosa resta oltre le frasi roboanti? Cosa c’è sotto la retorica? Gli ottimisti mettono l’accento sul fatto che sono state scritte cose impegnative nel documento firmato dai 27 capi di Stato e di governo. E’ vero. L’Europa sociale alla quale si è data particolare enfasi da parte del governo italiano, del presidente della Repubblica, di Papa Francesco. La difesa esterna, la sicurezza interna, l’immigrazione, tutti temi fondamentali, impostati in modo politicamente corretto. Anche se, leggendo i quattro capitoli (1-Un’Europa sicura, 2-Un’Europa prospera e sostenibile, 3- Un’Europa sostenibile, 4- Un’Europa più forte sulla scena mondiale) alla enunciazione di problemi e obiettivi non fanno seguito soluzioni chiare e distinte.
Per esempio, ci sarà una indennità di disoccupazione comune? Come, in concreto, verrà trovato un punto di equilibrio tra accoglienza, integrazione, espulsione dei migranti e dei rifugiati? O ancora: la force de frappe francese entrerebbe nel futuro e auspicabile esercito europeo? Si dirà: troppo presto per dare risposte. Ma qui risuona allora il preoccupato invito del Papa: fate presto, l’Europa non ha più tempo da perdere.
Non è un segnale positivo che si sia rinunciato a metter giù formalmente l’idea di una Unione a più velocità. Si dice che anche questo è implicito nella facoltà offerta a ciascun Paese di fare passi avanti senza per questo sentirsi tagliato fuori, ma l’Europa delle porte girevoli non è ancora l’Europa del nocciolo duro, o dell’avanguardia che dà solidità e impulso a un agli altri cerchi concentrici.
Meglio andare avanti insieme che proporre forzature divisive? Può darsi. Tuttavia, la giusta volontà di non essere tagliati fuori non vuol dire ricadere nel vecchio andazzo, nella paralisi dell’unanimità, nel ricatto dei veti. Se non si accetta che si possa decidere a maggioranza senza che la minoranza minacci la secessione, allora la Ue sarà condannata alla dissoluzione.
Quel che più minaccia tutta l’Unione, non è la vaghezza dei suoi impegni per il prossimo decennio, o la incapacità di delineare più chiaramente quel che verrà costruito in futuro (come l’esercito comune). No, è il cattivo funzionamento di quel che già esiste, soprattutto l’unione monetaria che rappresenta la più avanzata delle costruzioni europee in senso federale (per quanto non del tutto compiuta). Non a caso gli euroscettici o i neo-nazionalisti si accaniscono contro l’euro.
Dire che la moneta unica ha affamato i popoli, aumentato le diseguaglianze, punito i deboli e premiato i forti, fa parte della propaganda. L’euro rappresenta la prova vivente della possibilità di stare insieme sulla base di una fiducia comune. La fiducia come sappiamo è la componente fondamentale di ogni moneta (ancor più da quando è diventata cartacea), affinché sia accettata e utilizzata dagli individui e dai popoli. Ma fiducia è l’attributo chiave della convivenza civile, di quella comunità politica che trasforma le masse in cittadini.
E’ vero, dunque, vero più che mai, che l’Europa si fa con la moneta o non si fa. Bando alle sciocchezze sull’Europa delle banche contro l’Europa dei popoli, perché la moneta, come diceva il grande storico francese Marc Bloch morto in un lager nazista è “a un tempo barometro dei movimenti più profondi e causa di non meno formidabile conversione delle masse”. Da questo punto di vista è materia per gli storici e non solo per gli economisti. E in definitiva la moneta è politica. Se le cose stanno così, la risposta ai bisogni della gente e la battaglia contro la demagogia populista si basano su un migliore funzionamento della Euro zona.
L’unica istituzione compiuta e funzionante è la Banca centrale europea. Anche se essa stessa ha dei limiti, soprattutto perché non è accompagnata da una completa unione bancaria che renda efficace la trasmissione della politica monetaria all’intera economia e alla società. Non funziona affatto, invece, la governance dell’economia affidata alla commissione. Ora è in preparazione un documento che verrà discusso al consiglio europeo del prossimo maggio nel quale si prevede la nascita di un “ministro delle finanze” che sia nello stesso tempo un commissario e il capo dell’eurogruppo. Non è suo compito decidere le imposte che restano nelle mani dei governi nazionali, ma potrà avere a disposizione un bilancio, potrà gestire investimenti comuni, oltre a influenzare naturalmente le politiche di bilancio dei singoli paesi. La sua nascita è condizionata all’esito delle elezioni in alcuni paesi chiave a cominciare dalla Francia. Ma la questione di fondo è un’altra e rimanda ancora all’ingrediente fondamentale: la fiducia.
Ammettiamo che si raggiunga un consenso tra tutti i 19 Paesi dell’euro, e i poteri di questo nuovo alto commissario siano ben definiti in modo tale che possa influire sulle politiche non solo dei paesi deboli, ma anche di quelli forti (per esempio indurre la Germania a ridurre il suo attivo monstre della bilancia dei pagamenti e ad aprire di più agli altri partner europei il mercato interno), ebbene ci sono davvero le condizioni per uno “scambio equo e solidale” all’interno dell’Eurolandia? Questo è il punto chiave. Ed è un punto politico, non tecnocratico. Se non si afferma un comportamento “equo e solidale”, tutte le architetture istituzionali, tutti i pinnacoli di questa cattedrale incompiuta chiamata Ue, finiranno per sfarinarsi e crollare. Sotto il sole di Roma tutto cambia colore, ma, come comprende bene chi ci vive, i raggi (con la minuscola) di Roma sanno essere crudeli.