È nota l’estrema passione con cui gli americani raccolgono dati statistici. Il vizio però presenta dei pericoli, forse soprattutto quello di trovarsi con le prove di ciò che, a pensarci bene, sarebbe meglio non sapere.
Qualcosa del genere è successo a tre studiosi – Daniel Hamermesh, Michael Burda e Katie Genadek – associati all’IZA-Institute of Labor Economics di Bonn. L’Istituto, stimato, è sostenuto dalla Fondazione Deutsche Post. I tre hanno deciso di studiare l’interessante fenomeno del “non-lavoro”, cioè l’incidenza della “non-prestazione” offerta dai lavoratori dipendenti che “scansano” in ufficio, in fabbrica o altrove. Per esaminare la questione, i ricercatori disponevano dell’amplissima e autorevole banca dati dell’American Time Use Survey 2003-12 (ATUS), prodotta dall’United States Census Bureau.
Hanno trovato quello che non dovevano. In sintesi, i dati esaminati dimostrerebbero l’esistenza di “significative” e sistematiche differenze tra i principali gruppi etnici/razziali americani in termini del “non-lavoro sul posto di lavoro”. Purtroppo, i dati sono conformi con ragionevole precisione agli stereotipi razziali privatamente comuni tra gli americani, e molte altre nazionalità. Dei cinque gruppi etnici/razziali presi in considerazione, l’attaccamento al “dovere lavorativo” è maggiore tra i classici maschi americani bianchi (tempo sottratto al lavoro “produttivo”, 0,0645%), seguito poi da quelli di origine asiatica (0,0679%), i neri (0,0793%), gli ispanici ”non neri” (0,0848%) e poi “other” (0,0701%).
La distribuzione è pressoché identica anche tra le donne appartenenti agli stessi gruppi. Non sono stati trovati scostamenti significativi tra i sindacalizzati/non-sindacalizzati, dipendenti pubblici/privati, gruppi d’età, tipo e settore d’impiego né dislocazione geografica. Le differenze – non grandissime ma nemmeno minuscole – parrebbero dipendere chiaramente dalla collocazione etnica/razziale.
I tre studiosi sono rispettabili. Oltre all’IZA sono associati alla Royal Holloway University of London, alla Humboldt University di Berlino e all’University of Colorado americana. Sono visibilmente a disagio con ciò che hanno trovato guardando gli stramaledetti numeri. Passano lunghe pagine a esaminare – e poi scartare, dispiaciuti – altre spiegazioni sottili che potrebbero inficiare i dati. Tengono conto delle differenze di status matrimoniale, numero di figli in casa, scolarizzazione e molto altro ancora.
Il campione originale contava oltre 135mila rispondenti. Per eliminare le distorsioni derivanti dal lavoro nel weekend, chi ha faticato di sabato o di domenica è stato escluso, come anche gli autonomi. Sono rimaste comunque 35.548 persone, un campione non disprezzabile. Sono stati poi “sterilizzati” i dati relativi alle pause pranzo, per le “procedure di sicurezza” e così via. Il risultato chiave è semplice: i maschi delle minoranze lavorano di meno a parità di orario “formale”. Nell’aggregato, i ricercatori calcolano che le minoranze etniche “non-lavorano” l’1,1% in più al giorno dell’americano bianco—il che, spalmato su un anno lavorativo di 250 giorni, equivale a 22 ore di “non-work at work”.
L’esito – indipendentemente dalle sottigliezze statistiche – è infelice in quanto tende a rafforzare i “peggiori istinti” popolari. Maledetti numeri. Magari la matematica fosse solo un’opinione.