Critico o diffidente perché sfiancato, lo confesso, dalla produttività di Renato Brunetta, uno stakanovista dell’opposizione, anche quando gli capita casualmente di stare nella maggioranza, come avveniva ai tempi dei governi di Mario Monti e di Enrico Letta, da lui bistrattati ben prima che perdessero la fiducia di Silvio Berlusconi, debbo questa volta riconoscere al capogruppo di Forza Italia alla Camera di avere saputo infilzare a dovere l’imprudente omologo del Pd Ettore Rosato. Che gli aveva contestato il diritto di protestare contro la magistrata in aspettativa e presidente della commissione Giustizia di Montecitorio, Donatella Ferranti, eletta nelle liste del Pd e insorta contro la disinvoltura con la quale il governatore pugliese Michele Emiliano – altra toga in aspettativa – mescola giustizia e politica, ma dimentica di tenere bloccata da anni alla Camera una legge già approvata dal Senato per mettere più ordine nella materia.
Rosato, anziché prendere le iniziative necessarie per rimuovere questo blocco, che nuoce sia alla magistratura sia alla politica, ha cercato di dividere la responsabilità del ritardo con lo stesso Brunetta rimproverandogli di non avere mai usato il tempo messo a disposizione delle opposizioni dal regolamento della Camera per portare in aula finalmente quella benedetta legge. Che forse non riuscirà ad eliminare la brutta abitudine dei magistrati di restare in aspettativa per decine d’anni facendo politica attiva, come ha appena rivendicato di poter e voler fare ancora la ministra Anna Finocchiaro, sempre del Pd, ma potrebbe quanto meno scoraggiarla.
Ebbene, a Brunetta non è parso vero di poter tirare fuori dal cassetto e sbandierare le ben 25 lettere -venticinque- da lui mandate dal 2014 alla presidenza della Camera per inserire quella legge fra le priorità della sua parte politica. Che figuraccia, per Rosato.
Ne è uscito meglio, si fa per dire, il piddino Walter Verini. Che, ricordandosi di essere stato nominato relatore di quella legge dalla presidente della commissione Giustizia, si è detto pronto a riferire in aula. Dove, fra uno svolgimento e l’altro di interrogazioni e interpellanze più o meno urgenti, diventate ormai il piatto preferito del menù parlamentare, si potrebbe ben trovare il tempo per discutere anche di come disciplinare i rapporti fra magistrati e politica.
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Michele Emiliano intanto continua la sua corsa alla segreteria del Pd nel doppio e singolare ruolo di candidato e di testimone nelle indagini giudiziarie in corso a Roma per l’affare Consip, in cui è coinvolto non il suo antagonista Matteo Renzi, di certo, ma il padre Tiziano, che ne porta pur sempre -diciamo- il cognome e potrebbe in qualche modo disturbare l’aspirazione del figlio a riprendere la guida del partito. E questo per non parlare di altri renziani coinvolti nelle indagini sugli appalti per gli acquisiti delle pubbliche amministrazioni: il ministro Luca Lotti e l’imprenditore Carlo Russo, che si ritrovano direttamente o indirettamente in vecchi messaggini telefonici ricevuti tre anni fa da Emiliano, da questo rivelati al Fatto Quotidiano e e giunti così a conoscenza degli inquirenti, interessati naturalmente a saperne di più.
La testimonianza di Emiliano in Procura, a Roma, era stata annunciata per oggi ma all’ultimo momento è slittata, non si sa di quanto. E non si sa nemmeno per iniziativa di chi: della Procura, dove certamente il lavoro non manca, o di Emiliano, troppo preso dalla sua corsa alla segreteria del partito, ma anche da un procedimento in corso su di lui nella commissione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura. Dove si fatica a considerare ancora “indipendente” e prestato alla politica uno che, oltre a guidare il governo della sua regione, dopo avere fatto il sindaco di Bari e l’assessore non ricordo più in quale città, è stato anche il presidente regionale del partito e ora aspira alla segreteria nazionale, essendone ovviamente un iscritto, almeno per obbligo statutario.
Quello in cui si trova Emiliano mi sembra quanto meno un pasticcio, dal quale sono personalmente curioso di vedere se il capo della Procura di Torino Armando Spataro, dal quale Emiliano si fa difendere, riuscirà a tirarlo fuori nella competente commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, che intanto ha spostato al 3 aprile l’udienza che sembrava imminente.
In questo intreccio di procedimenti e di rinvii la ministra Finocchiaro ha ritenuto di dover e poter criticare il suo collega Emiliano solo per avere parlato dei vecchi messaggini telefonici di cui dispone ad un giornale prima che ai magistrati ai quali possono interessare per le già ricordate indagini in cui sono coinvolti il padre e amici di Matteo Renzi.
Per fortuna, debbo dire, la signora Finocchiaro non ha scelto di sostenere Emiliano nella corsa alla segreteria del Pd. Ma neppure Renzi, pur avendone condiviso e gestito al Senato la riforma costituzionale bocciata dal referendum del 4 dicembre. Il candidato che la ministra ha deciso di sostenere è invece il ministro della Giustizia Andrea Orlando, pure lui proveniente dall’esperienza del Pci, come la signora, e appoggiato neppure dietro le quinte anche da altre personalità di quel partito come Giorgio Napolitano e Ugo Sposetti, il mitico tesoriere dell’altrettanto mitico e ambito patrimonio immobiliare, mobiliare e artistico del vecchio partito comunista.
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E’ una curiosa notizia anche quella appena data su Repubblica da Massimo Giannini. Che si è sentito confessare per telefono da Matteo Renzi, testualmente: “A naso, direi che a questo punto si andrà a votare nel 2018. Quindi il governo non ha più alibi. Deve governare e governare bene”.
In quell’”alibi” si avverte qualcosa di nuovo, e di polemico naturalmente, rispetto all’immagine alla quale ci aveva abituato una certa letteratura degli avversari dell’ex presidente del Consiglio. L’immagine cioè di un governo Gentiloni fotocopia, a tutti gli effetti, di quello di Renzi.
Se sono rose fioriranno, con le loro spine naturalmente.