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Il mio ricordo di Alfredo Reichlin

Alfredo Reichlin

Prima ancora che un dirigente politico, Alfredo Reichlin era un intellettuale di vaglia e un vero signore. Cortese, gentile, attento anche nei confronti delle persone che non condividevano le sue convinzioni. Sapeva indicare le strategie politiche, avvalendosi delle qualità e delle esperienze necessarie ad un leader di spicco all’interno di un grande partito come era il Pci. La formazione del gruppo dirigente, allora, era un processo serio che alternava, in un percorso quasi precostituito, momenti ed occasioni diverse di impegno, ai vertici del partito nelle organizzazioni periferiche, nelle istituzioni, alla testa di importanti sezioni di lavoro della Direzione nazionale. Non bastava essere nati in Toscana: occorreva sapersi misurare con l’elaborazione teorica attraverso saggi ed articoli scritti di propria mano che arricchissero il dibattito ed orientassero i militanti. Tutto senza strappi e con disciplina. Chi scrive aveva con Reichlin un rapporto cordiale. Ricordo che accettò di venire a Bologna a presentare, nel 1991, insieme ad altri, il mio primo libro dal titolo un po’ eretico (“Prediche inutili di un sindacalista pentito”), un saggio critico nei confronti del sindacato (la Cgil) di cui ero componente della segreteria confederale. Un’altra volta – dopo che mi ero complimentato con lui per un documento che era stato incaricato di redigere per aprire un dibattito nel partito – Alfredo mi prese da parte e mi confidò le vicissitudini di quel testo. Vi aveva lavorato per tutta l’estate in una località appartata. Rientrato a Roma, mentre apriva la porta di casa e scaricava i bagagli dall’automobile, la borsa che conteneva il faticoso elaborato, con il materiale di riferimento, gli era stata sottratta da un lestofante in motorino. La riscrittura fu parecchio travagliata e laboriosa. Allora non esistevano i ghost writers. Anzi per un dirigente sarebbe stato quasi un disonore servirsene. Altri tempi ed altre persone.

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Che cosa succederà a Roma sabato prossimo in occasione del 60° Anniversario del Trattato europeo? Corre voce che alle Forze dell’Ordine sia stato comandato di non reagire alle provocazioni degli estremisti provenienti dalle fogne e dagli immondezzai di tutta Europa al solo scopo di provocare disordini e violenze. In tali casi io mi chiedo sempre quanto diversa sarebbe stata la storia di questo Paese se, il 28 ottobre del 1922, re Vittorio Emanuele III avesse firmato il decreto – predisposto dall’imbelle Governo Facta – che proclamava lo stato d’assedio.

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Non basta dire “siamo tutti sbirri” soltanto a Locri. Dobbiamo sentirci di esserlo anche a Roma. Perché sono gli “sbirri” che in quella giornata garantiranno la democrazia.

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Nel suo comizio in Calabria, don Ciotti ha accostato la massoneria alla criminalità organizzata. Con tutto il rispetto, mi pare un paragone infondato ed eccessivo.



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