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Cosa può insegnare Israele all’Europa nella lotta al terrorismo

Fiamma NIRENSTEIN

La lotta di Israele contro il terrorismo dura da decenni e certamente può essere utile per fornire consigli all’Europa di fronte a un fenomeno dalle molteplici facce, non sempre coincidenti con quelle del terrorismo islamista. Fondamentale è la “morale dell’antiterrorismo”, cioè l’approccio della gente comune che in Israele si tramuta in un’allerta 24 ore al giorno e in una diffusa solidarietà e che in Europa, invece, è quasi assente. Solidarietà che è parte integrante della prevenzione, su cui anche l’Italia deve compiere passi da gigante. “Lezioni dalla risposta di Israele al terrorismo” è il titolo del volume curato dal Jerusalem Center for Public Affairs (Jcpa) e presentato alla Camera. Un esempio di “condivisione e affetto verso l’Europa” l’ha definito Fiamma Nirenstein, direttrice del Progetto Europa del Jcpa, scrittrice ed ex vicepresidente della commissione Esteri di Montecitorio, secondo la quale in Israele “la solidarietà è cresciuta insieme col rischio”.

LO SCHEMA DI DIFESA ISRAELIANO

La posizione degli oratori israeliani è stata di totale chiusura a trattative o aperture di qualunque tipo con la controparte palestinese. Detto che per la sicurezza interna un attentato subìto è “un errore strategico”, il generale Yossi Kuperwasser, un passato nell’intelligence militare ed ex direttore generale del ministero degli Affari strategici di Tel Aviv, ha elencato lo schema di difesa adottato: la prevenzione, con ampio uso dell’intelligence in collaborazione con i servizi segreti dei paesi amici; la protezione, con piani specifici per aeroporti, supermercati e altri obiettivi particolari; il profiling del nemico, con operazioni militari mirate; la consapevolezza pubblica, per cui ogni cittadino israeliano è in perenne allerta; la resilienza, con la capacità di mantenere l’ordine e una routine quotidiana anche in caso di attacchi. Kuperwasser ha fornito altri due elementi interessanti: il primo riguarda l’individuazione di giovani palestinesi in procinto di radicalizzarsi attraverso i social network e fermati in tempo, contattandoli anche grazie alle loro famiglie; il secondo è la scelta di indirizzare i migliori giovani delle Forze armate allo sviluppo delle tecnologie, sia perché su quel fronte la lotta al terrorismo sarà sempre più evoluta, sia per consentire loro di mettere a frutto quell’esperienza una volta tornati alla vita civile.

LA MORALE DELL’ANTITERRORISMO

“Qual è il livello di solidarietà morale dei nostri alleati e amici? Siamo soli?”. La domanda di Dan Diker, direttore del Political Warfare Project del Jcpa, è nello stesso tempo una critica e un avvertimento: la minaccia con cui deve fare i conti Israele è percepita come un problema locale, mentre “loro non fanno differenza tra israeliani ed europei”. Concetto non del tutto condiviso da Fabrizio Cicchitto, presidente della commissione Esteri della Camera, perché l’Isis è cosa diversa dal terrorismo con cui ha a che fare il governo di Tel Aviv. Stefano Dambruoso (Civici e innovatori), questore della Camera, è convinto che l’Ue debba fare tesoro dell’esperienza israeliana intensificando la collaborazione fra Stati mentre, sul fronte italiano, la società deve prendere atto che tra 10-15 anni i circa 2 milioni di musulmani oggi nel nostro Paese si saranno moltiplicati e quindi sarà fondamentale il ruolo degli insegnanti nel dialogo interculturale. Uno dei temi, questo, della proposta di legge sulla deradicalizzazione che il 20 marzo sarà in Aula, presentata da Dambruoso e da Andrea Manciulli (Pd), presidente della delegazione italiana presso l’assemblea parlamentare della Nato e vicepresidente della commissione Esteri della Camera, che ha fornito elementi di grande interesse. Proprio “la morale dell’antiterrorismo è il punto su cui dobbiamo riflettere in Europa” ha detto. Quello che si vive in Israele “si vive all’improvviso da noi” se, per esempio, a Bruxelles chi mandava i propri figli ragazzini a teatro da soli prima degli attentati oggi ha cambiato radicalmente abitudini. Ma la domanda di fondo è: “È ancora giusto parlare solo di terrorismo?”. La risposta di Manciulli è che l’Isis (che lui preferisce chiamare Daesh) “non è solo terrorismo, ha modificato l’oggetto dell’azione che era di al Qaeda ed è un matrimonio impuro tra terrorismo e l’insorgenza del baathismo iracheno”.

LE TRE TESTE DELL’ISIS

In sintesi, le tre teste del mostro-Isis sono la guerra convenzionale, la guerra mediatica e il terrorismo. La guerra convenzionale, ha detto Manciulli, serve a creare uno Stato baathista per tutti i jihadisti del mondo. La guerra mediatica è molto più pericolosa di quanto s’immagini e per questo serve “una legge contro la radicalizzazione” come quella che sta per discutere Montecitorio. Un esempio fatto dal parlamentare riguarda un videogioco molto noto, “Call of duty”, nel quale si può scegliere chi impersonare in una guerra. I terroristi, già da qualche anno, hanno creato “Call of duty jihad” che capovolge l’impostazione “e ci sono ragazzini che trovano divertente vestirsi come loro”. Infine, la terza testa è il terrorismo che “è il mezzo per veicolare il resto”. Manciulli ha bacchettato la stampa che racconta come sia quasi fatta la presa di Mosul da parte della coalizione internazionale e che presto toccherà a Raqqa: “Un grosso errore mediatico” perché si dà l’impressione che l’Isis sia quasi sconfitto mentre “la reazione forte può arrivare ai nostri confini”. E torniamo così alla prevenzione, al rischio che in futuro anche in Italia ci possa essere una Molenbeek, la cittadina belga dove fu arrestato l’attentatore di Parigi Salah Abdeslam, perché potremmo avere problemi nelle periferie. La legge sulla deradicalizzazione dovrà aiutare a cambiare la nostra mentalità e, nel frattempo, tutti i Paesi europei e anche quelli balcanici dovrebbero adottare le stesse norme antiterrorismo.

L’INCOSCIENZA DEGLI ANNI NOVANTA

Per capire meglio un’integrazione mancata in Europa, è utile rileggere un passaggio dell’intervista che nel novembre 1998 rilasciò a Il Tempo l’allora ministro dell’Interno, Rosa Jervolino, da poche settimane al Viminale nel neonato governo di Massimo D’Alema. Alla domanda su quale fosse la quota di integrazione sociale in Italia, la signora ministro (come gradiva essere chiamata) rispose: “E’ difficile dirlo. Mia figlia vive in Belgio, dove la quota di immigrati è molto superiore che in Italia e non crea nessun problema. I miei due nipotini vanno in un asilo nido dove sono tra i pochissimi bianchi e per loro è assolutamente normale. Credo che qualche problema in più ci sarebbe in Italia” … “Tra dieci anni la soglia sociale sarà molto diversa da oggi, succederà come oggi in Belgio dove litigano molto di più valloni e fiamminghi che non questi con gli immigrati”.

Dopo vent’anni, e con molto senno del poi, è evidente che le liti tra valloni e fiamminghi li hanno distratti da come stavano crescendo i figli di alcuni immigrati, non necessariamente di colore, se gli attentati di Parigi e di Bruxelles ne sono la conseguenza. Nel Belgio degli anni Novanta, che sembrava un paradiso, non si sono accorti del fuoco sotto la cenere; nell’Italia di oggi, pur avendo ben presente il problema, si stenta ad avviare una vera prevenzione negli strati della società multietnica senza la quale la prevenzione di polizia (pur eccellente) rischia di diventare un secchiello per svuotare il mare.



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