La proposta di Bill Gates, il fondatore della Microsoft, l’uomo più ricco al mondo, di tassare i robot, è una follia che, come al solito, ha trovato nel nostro Paese benevola accoglienza presso quella parte dell’intellighenzia radical chic nostrana, che vede in ogni innovazione una macchinazione contro il popolo. Fermare il progresso non è di sinistra, è velleitario, significa fermare l’acqua con le mani e assicurare una maggiore quantità di lavoratori all’esclusione sociale. Purtroppo siamo un paese che si occupa solo del paracadute ancora prima di avere imparato a volare.
L’Italia vive dal 2008 una profonda crisi economica e sociale. Nell’industria sono andati persi 600mila posti di lavoro, 300mila dei quali tra i metalmeccanici. Alcuni settori sono spariti o sono stati drasticamente ridimensionati – penso all’elettrodomestico, ma anche ai settori dell’informatica e dell’elettronica – perché troppo poco è stato investito in innovazione, ricerca e tecnologia. Certo, l’Italia ha un grave problema di ridistribuzione delle risorse – tra i paesi occidentali siamo quello in cui gli squilibri durante la crisi sono cresciuti maggiormente – oltre a quello di un welfare mal gestito.
Non è difficile scorgere la contraddittorietà interna alla proposta del magnate americano: se la medesima logica fosse stata applicata ai software con cui Microsoft dagli anni Novanta ha rivoluzionato l’informatica, distruggendo peraltro milioni di posti di lavoro, Bill Gates oggi sarebbe forse molto meno ricco di quello che è. E forse noi più poveri. Seguendo questa logica avremmo dovuto tassare anche i bancomat perché hanno sostituito i cassieri o i distributori automatici perché hanno soppiantato i benzinai.
Se negli anni Ottanta avessimo seguito il suo consiglio, nelle cabine di verniciatura della Fiat di Vittorio Ghidella a Mirafiori probabilmente non sarebbero mai entrati i primi robot e la Comau non sarebbe diventata nei decenni successivi un leader globale del settore. Dalla California possiamo sicuramente importare molte cose: lo spirito imprenditoriale, la capacità di aprirsi al mondo e di creare un ecosistema efficace tra università, industria, Stato e sistema finanziario. Non certo le suggestioni (sbagliate) di alcuni guru. Elon Musk, il fondatore di Tesla, ha proposto l’introduzione di un reddito minimo universale che dovrebbe assicurare la sopravvivenza a quanti verranno espulsi dal mercato del lavoro dai robot e dall’intelligenza artificiale: un mondo popolato da un 10% di lavoratori iper-professionalizzati e un 90% che vive del reddito universale.
È un idea di futuro profondamente sbagliata sul piano etico come su quello economico. Perché bisogna liberarsi nel lavoro, non dal lavoro. Ma partiamo dai numeri. Secondo i dati del World Economic Forum, dal 2015 ad oggi il costo orario di un robot e quello di un lavoratore umano si sono avvicinati fino ad eguagliarsi. Si stanno introducendo rapidamente i cosiddetti robot collaborativi, con capacità cognitive, e questo cambierà il loro utilizzo. La soluzione non è tassarli, piuttosto servirebbe un intervento che riduca le imposte attuali sul costo del lavoro. Che in Italia – va ricordato – è altissimo se misurato per unità di prodotto, ed oltretutto inversamente proporzionale alla dimensione delle imprese. Con nuove imposte, le aziende di medie e piccole dimensioni (20/10 dipendenti), già in difficoltà , non avrebbero più la possibilità di innovare: sarebbero tagliate fuori dal mercato. Se si vuole fare un intervento di questo tipo, per sostenere il welfare, innanzitutto si faccia in modo che le società dell’economia digitale paghino le tasse. Visto che, per una strana logica, gran parte dei colossi del digitale non solo possono scegliere dove pagare le imposte, ma spesso anche di pagarne pochissime.
Va poi aggiunto che i contorni politico-finanziari della proposta non sono affatto chiari. Per rendere veramente universale il reddito di cittadinanza proposto dai Movimento 5Stelle in Italia servirebbero 90 miliardi di euro l’anno, una proposta insostenibile. Ma pure nella sua versione “soft” – alla base del disegno di legge presentato dal movimento di Beppe Grillo in questa legislatura, che individua una platea di 2 milioni e 759 mila famiglie con un reddito inferiore alla linea di povertà – il costo a carico della fiscalità generale sarebbe di 15 miliardi. Altra cosa sarebbe introdurre un reddito di reinserimento, da riconoscere in caso di “estrema indigenza” e finalizzato alla ricerca attiva del lavoro. In questo contesto, va senz’altro giudicata positivamente – benché si richiami ad un’esigenza fondamentalmente diversa, assicurare cioè un sostegno contro la povertà alle famiglie indigenti – l’approvazione da parte del Parlamento del reddito di inclusione, una misura certo parziale ma che mette le basi per costruire quello strumento di protezione universale che ancora manca al nostro paese.
La prima preoccupazione non può essere quindi quella di costruire castelli in aria con risorse che non ci sono, bensì quella di assicurare ai lavoratori le competenze necessarie per stare al passo con l’innovazione. Una strada, questa, lastricata di concretezza e non di demagogia, sulla quale i metalmeccanici si sono spinti già avanti con l’introduzione del diritto soggettivo alla formazione nel contratto nazionale di recente rinnovato.
Non è dunque tassando i robot che risolveremo i nostri problemi. Peraltro non si capisce bene su quale base fattuale poggi la lettura catastrofista del cambiamento, visto che i principali studi non offrono un’analisi univoca del fenomeno né concordano sulle previsioni. Secondo McKinsey i il 45% degli impieghi svolti oggi da persone in carne e ossa potrebbe in un prossimo futuro essere appannaggio dei robot. Di contro il World Economic Forum, in una ricerca che prende in esame le prime 15 economie del mondo, prevede che entro il 2020 a perdere il posto potrebbero essere 5 milioni di persone: uno scenario preoccupante, ma ancora assai lontano dall’incubo della “fine del lavoro”. Altri studi autorevoli parlano di trasformazione del lavoro e di milioni di nuovi posti e professioni creati dalle nuove tecnologie integrate. Sono convinto che vi sia uno spazio nuovo che le persone potranno riempire con le loro insostituibili energie. Come ci ha ricordato anche di recente Papa Francesco, il lavoro non è solo un mezzo di sostentamento economico per le persone, è qualcosa di molto di più, riguarda la dignità e la libertà personale e la trasformazione dell’esistente.
La sfida di cui vogliamo essere parte attiva è quella di giocare la partita senza paura del futuro per governare in chiave umana il cambiamento, con il contributo di tutti.
Marco Bentivogli, segretario generale Fim Cisl
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Il 22 marzo 2017, ore 15.00 – Hotel NHow, via Tortona 35, Milano si terrà nell’ambito del programma DIGITAL ITALY 2017 la tavola rotonda dal titolo : TASSARE I ROBOT PER FINANZIARE IL WELFARE?
Si parlerà di Innovazione tecnologica e impatto sul mercato del lavoro: rischi e nuove opportunità, e della proposta di Bill Gates: l’ ultimo dei luddisti o il più lungimirante degli innovatori? Quali Politiche per ridurre l’impatto dell’automazione sull’occupazione. Redistribuire il valore dei dati per finanziare un nuovo welfare? Liberazione dal lavoro o liberazione nel lavoro?
Con un’introduzione ai lavori del Prof. Carl Benedikt Frey, co-director and Oxford Martin Citi Fellow, Oxford Martin Programme on Technology and Employment a cui seguirà il dibattito tra Marco Bentivogli, segretario generale FIM CISL, Carlo Alberto Carnevale Maffé, Docente di Strategia d’Impresa ed Economia Aziendale, SDA Bocconi, Elio Catania, presidente Confindustria Digitale, Luca De Biase, giornalista, Riccardo Staglianò, giornalista, autore di “Al posto tuo”, Michele Vianello, digital evangelist, già direttore generale del VEGA Science & Technology Park.
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