Sembrava fatta. Con Hollande all’8% di popolarità e i suoi delfini impegnati a sbranarsi, Macron imprigionato nell’immagine di ex ministro del governo, il centrista Bayrou sul viale del tramonto e il tribuno Mélenchon incapace di scavalcare elettoralmente il recinto della sinistra radicale, la via per l’Eliseo pareva spianata per François Fillon. All’indomani del trionfo alle affollate primarie del centro e della destra, l’ex primo ministro – liberale, moderato e cattolico, rassicurante e misurato in atteggiamenti e parole – era ormai presidente in pectore e nessuno avrebbe azzardato una scommessa contro il ritorno al potere della droite dopo il disastroso quinquennio socialista. Lo scenario sembrava disegnato fin nei minimi particolari: un exploit di Marine Le Pen al primo turno, testa a testa con il candidato post-gollista, poi un ballottaggio senza storia: magari non con l’abissale distacco inflitto da Chirac al padre di lei nel 2002, ma con un solido due terzi a un terzo, o giù di lì. Giubilo dei fan; tormenti nei ranghi di un Front national inchiodato al tetto del 30% che si ipotizza non possa mai scoperchiare; consolazione delle sinistre, sconfessate dagli elettori, ma liberate dall’incubo di un ritorno alle ore più oscure della storia. Cerimonia di insediamento, sventolio di bandiere, Marsigliese e via verso un tranquillo rinnovo dell’Assemblée nationale e il ritorno alla routine, Isis permettendo.
Già, i giochi sembravano chiusi. Ma poi sono entrati in scena Pénélope con lo stipendio da mezzo milione di euro per un assistentato parlamentare inesistente e le prebende concesse, con fondi dei contribuenti, ai rampolli di casa Fillon, e nell’arco di due settimane i sondaggi hanno invertito la rotta. A destra si è diffuso il panico e si è ipotizzato un cambio di cavallo in corsa, per poi rassegnarsi a una controffensiva mediatica dall’esito incerto. L’azzoppamento – pur non definitivo – dell’ex numero due di Sarkozy ha irrobustito la speranza di Macron di fungere da ponte tra i delusi del centrosinistra e del centrodestra, ma ha anche rilanciato la candidatura di Marine Le Pen e rimesso al centro della discussione il fattore populismo.
Portata alle stelle dalla vittoria di Donald Trump, momentaneamente offuscata dall’insuccesso di Norbert Hofer alle presidenziali austriache, logorata dall’uso smodato e contundente che ne viene fatto nei canali comunicativi, questa parola ha ricominciato, con il ritorno in grande stile della corruzione sulla scena politica transalpina, a far paura a molti commentatori e ad attrarre una fetta non trascurabile dell’elettorato, la cui sfiducia nell’establishment cresce allo stesso ritmo della crisi di credibilità delle istituzioni. La formula semplicistica ma comprensibile che contrappone il popolo onesto alle élite corrotte, quelli che stanno in basso e subiscono a chi approfitta di loro, rintanandosi nelle nicchie dorate del potere, ha una presa sempre più evidente. Lo hanno capito, su versanti teoricamente contrapposti, sia Mélenchon – che negli ultimi anni ha sostituito il popolo al proletariato come motore della storia e ha fatto del “Se ne vadano tutti!” il suo slogan – sia Marine Le Pen, che ha intitolato la propria campagna “Au nom du peuple” (In nome del popolo).
Lo scontro con il sistema, alimentato dal discorso populista, traccia linee di conflitto ben più chiare di quelle, sempre più labili, che in passato consentivano di distinguere tra sinistra e destra. Su temi come il recupero della sovranità nazionale, l’ostilità alla globalizzazione e alle sue conseguenze, la critica dell’euro e delle scelte dell’Unione europea, l’affrancamento dalle politiche economiche neoliberali, l’uso degli strumenti di democrazia diretta come correttivo/antidoto della rappresentanza parlamentare, la diffidenza nei confronti della tutela transatlantica, fra la leader del Front national e il capofila del Front de gauche, la convergenza è innegabile. Resta una distanza netta sulle questioni legate all’immigrazione e all’insicurezza, ma l’attacco bilaterale genera difficoltà sempre più forti per la classe politica mainstream, e se il voto raccolto dai due candidati estremi al primo turno della presidenziale avvicinasse il 50%, l’effetto psicologico sull’opinione pubblica potrebbe essere dirompente. Macron diventerebbe la ciambella di salvataggio dello status quo, ma la legittimità dell’impalcatura istituzionale della Quinta repubblica – con il suo sistema elettorale congegnato per preservare ad aeternum l’alternanza (post)gollisti-socialisti – sarebbe fortemente compromessa.
Resta da capire se gli elettori di destra delusi dalla vicenda Fillon accetteranno, in un ipotetico ballottaggio Macron-Le Pen, di sostenere una candidata il cui programma è definito socialista da molti conservatori. Se questo accadesse, si aprirebbe una pagina inedita non solo per la Francia, ma per l’intera Europa, e il populismo farebbe il suo ingresso a vele spiegate nei manuali di storia del pensiero politico.
Marco Tarchi, docente di Scienza politica presso l’Università di Firenze