Jeff Sessions ha incontrato almeno due volte l’ambasciatore russo negli Stati Uniti Sergei Kislyak, a luglio e a settembre, secondo due fonti del dipartimento di Giustizia americana che hanno parlato in forma anonima col Washington Post. Il diplomatico russo è ovviamente libero di muoversi e incontrare chiunque, così come il senatore, ma la notizia diventa rilevante se inquadrata in un certo scenario: quello dei contatti tra il presidente Donald Trump e i suoi uomini con la Russia.
PERCHÈ GLI INCONTRI CON KISKLYAK SONO RILEVANTI
Già ai tempi in cui Sessions ha incontrato Kislyak, infatti, il senatore era uno dei più influenti consiglieri dell’allora ancora-candidato Trump. Per lui si prevedeva un ruolo di primo piano nella squadra di governo, si parlava degli Esteri o della Giustizia, e alla fine quest’ultima è toccata all’ultra conservatore senatore dall’Alabama. Già in quel periodo, inoltre, il caso Russia-Trump era saltato fuori alle cronache giornalistiche ed era diventato oggetto di un’indagine dell’Fbi per le interferenze di Mosca, tramite attacchi di hacker, nella campagna elettorale presidenziale. Si parlava della possibilità che i russi volessero sfavorire la vittoria di Hillary Clinton, e favorire dunque Trump, e di probabili contatti tra gli uomini di Trump e funzionari governativi russi per orchestrare insieme questo piano. Ci sono altri due aspetti perché la vicenda di Sessions è rilevante. Il primo: per ottenere il posto di ministro della Giustizia Sessions è dovuto passare per le audizioni di conferma in Senato (dove non ha avuto vita facile per via di vecchie accuse di razzismo), e davanti alle interrogazioni dei colleghi senatori lui disse, in due occasioni, che durante la campagna elettorale non c’era stato nessun contatto con la Russia: rispose a livello personale alla domanda verbale del democratico Al Franken, e per iscritto parlando a nome dell’entourage di Trump a quella di Patrick Leahy. (Entrambi sono senatori dem). Dunque, prese per vere le rivelazioni del WaPo, che non sono state smentite, Sessions avrebbe mentito al Congresso. Altro aspetto: le indagini sulle interferenze russe sono condotte dal controspionaggio, di cui si occupa l’Fbi, e questo significa che in questo momento Sessions dirige il dipartimento che ha giurisdizione sul Bureau, e dunque è a capo degli inquirenti che stanno indagando anche su di lui (aka, conflitto di interessi).
LE REAZIONI
Sessions ha diffuso un comunicato stampa tramite la sua portavoce in cui ha spiegato che quegli incontri, che dunque ci sono stati, rientravano nell’ambito delle sue attività da senatore membro dell’Armed Service Committee e non erano “per discutere della campagna elettorale”; il WaPo dice che però nessun altro dei colleghi di commissione ha avuto incontri riservati con i russi nell’ultimo periodo. Resta comunque che la dichiarazione durante l’audizione è mendace, perché nelle domande dei colleghi non era specificato il motivo degli incontri, ma gli veniva chiesto soltanto se avesse avuto rapporti con Mosca, generici. I democratici per questo ne chiedono le dimissioni, mentre Lindsey Graham, senatore repubblicano compagno di Sessions nella Commissione Forze armate, ha detto che occorre che un procuratore speciale si prenda in carico la vicenda e indaghi più a fondo. Graham, insieme a John McCain (che è il presidente della stessa commissione) sono due delle voci più critiche con Trump all’interno del Partito repubblicano. Il presiede la Commissione di supervisione sul governo alla Camera, anch’egli del Gop, ha chiesto che Sessions chiarisca la sua posizione a proposito delle dichiarazioni al Congresso.
L’INCHIESTA SI INGROSSA, ANCORA
L’ambasciatore russo Kislyak è lo stesso con cui l’ex Consigliere per la Sicurezza nazionale nominato da Trump, Michael Flynn, aveva intrattenuto diverse conversazioni, all’interno delle quali aveva parlato della possibilità di eliminare le sanzioni (che gravano sulla Russia per via della crisi fomentata in Ucraina) una volta che l’amministrazione Trump sarebbe entrata in azione. La rivelazione di quelle telefonate, avvenuta tramite altri due scoop del Washington Post, costò il posto a Flynn, costretto a dimettersi perché entrato in una posizione imbarazzante: aveva mentito all’Fbi che gli aveva chiesto chiarimenti in proposito – e l’Fbi sapeva delle menzogne perché Flynn era sotto controllo nell’ambito dell’inchiesta sulle ingerenze russe – e poi aveva anche mentito al vice presidente, che successivamente lo aveva difeso in televisione mentendo a sua volta (probabilmente in buona fede). In uno sviluppo parallelo, ma sempre all’interno della stessa questione: sul tavolo di Flynn fu consegnato un documento contente un piano di pacificazione per l’Ucraina, redatto da un parlamentare simpatizzante russo e facilitato da altri tre personaggi vicini a Trump.
C’È ANCHE UNO SCOOP DEL NYT: OBAMA NON SI FIDAVA
Nel frattempo il New York Times ha pubblicato un altro scoop. Pare che negli ultimi giorni di mandato l’amministrazione Obama abbia fatto in modo di tutelare l’inchiesta sulle interferenze russe da possibili insabbiamenti. Ha diffuso le informazioni tra le agenzie, anche ai livelli più bassi e non confidenziali, creando i presupposti perché venissero spifferate alla stampa e diventassero questione di dibattito pubblico. E contemporaneamente ha protetto i dossier più sensibili, alzando i livelli di riservatezza in modo che non potessero essere accessibili e manipolati. Praticamente: l’amministrazione Obama non si fidava degli uomini di Trump, e temeva che potessero coprire quello che finora le agenzie di intelligence (aiutate anche da partner europei) avevano scoperto e distruggere le prove.