In macchina stavo ascoltando Radio Anch’io che ha fatto una bella raccolta di opinioni tra professori della John Cabot University di Roma: tema, il discorso del presidente americano Donald Trump al Congresso di ieri sera, da qui nascono queste riflessioni.
SUL DISCORSO
Senza troppa cronaca, perché su queste colonne se n’è occupato con il solito taglio cingolanesco e interessante Stefano Cingolani, il discorso “potrebbe essere stato il miglior discorso da quando è entrato in politica”, citando Chris Cillizza, famoso commentatore politico del Washington Post. Ma potrebbe essere stato solo un passaggio e non aver modificato niente del Trump che conosciamo. Tecnicamente non è stato un discorso sullo stato dell’Unione – perché dopo 39 giorni non è possibile farne uno, per prassi e buon senso –, ma ha avuto tutti i crismi di un Sotu, tanto che anche il Secret Service aveva alzato le misure di sicurezza definendo l’incontro a Capitol Hill un “National Special Security Event”, ed era stato scelto anche un “designated survivor”, David Schulkin, segretario per i Veterani, a cui come noto sarebbe spettato il ruolo di prendere le redini del paese se fosse successo qualcosa di catastrofico là dove Trump parlava davanti a deputati, senatori, membri del governo e giudici della Corte suprema (ossia tutta la linea di successione amministrativa del paese). È stato a tutti gli effetti un Sotu anche perché i democratici hanno tenuto un discorso di riposta, recitato da Steve Beshear, che è un ex governatore del Kentucky e non il primo della lista tra politici dem (per alcuni questa scelta indica che i democratici sono in difficoltà, perché nessuna delle star emergenti del partito ha accettato di parlare, col rischio di bruciarsi in un momento così delicato). La principale delle caratteristiche che però hanno accomunato le parole di Trump a quelle di un discorso sullo stato dell’Unione (lo chiameremo ~Sotu) è stata che “per la prima volta è sembrato un presidente normale”, come ha commentato Jeff Greenfiled su Politico. “È sembrato” è un po’ la chiave di tutti.
TRUMP E GLI AMERICANI
Il primo effetto positivo che ha avuto il discorso di Trump sugli americani è stato comunque un’iniezione di ottimismo: lo dice un sondaggio a caldo della CNN, e forse potrebbe essere un punto di partenza per ricostruire un consenso che latita, anche perché finora Trump è stato polarizzante e ha ottenuto feedback positivi soltanto dai suoi elettori (ossia: rispetto a un normale presidente, i democratici e gli indipendenti lo considerano a larga maggioranza pessimo, e questi sono punti percentuali che mancano nel conteggio finale del consenso e lo hanno portato a livelli negativi storici, sotto al 50 per cento di approval nel giro di pochi giorni). Durante la trasmissione di Radio Rai da cui tutto è partito, oltre ai commenti dei politologi dell’università americana di Roma – tutti più o meno concordi sul fatto che, contenuti a parte, Trump aveva usato per la prima volta la giusta presidenziabilità nei toni – sono stati raccolti diversi interventi da parte degli ascoltatori, e tutti giravano intorno a un punto: i media non devono criticare Trump, devono dargli tempo e rispettare gli americani, perché lui ha vinto ottenendo la maggioranza dei voti tra i cittadini. Da qui altri spunti.
I VOTI DEGLI AMERICANI
Partiamo da quello che evidentemente è considerato un dettaglio tecnico a cui dare relativa importanza, visto che ci si è costruita intorno una narrativa sbagliata. Come noto – ma evidentemente, non troppo noto – Trump ha perso il voto popolare, cioè non è il presidente scelto dalla maggioranza dei cittadini. Ossia, è arrivato dietro di circa 3 milioni di voti rispetto alla sua avversaria Hillary Clinton (non serve cercare nei meandri della burocrazia, basta andare su Wikipedia: 62,985,106 Trump contro 65,853,625 Clinton). Questo aspetto è forse complicato da comprendere (ammesso si volesse, comprenderlo), perché è conseguenza del sistema elettorale americano, che premia le vittorie tra gli Stati – le quali assegnano quelli che si chiamano Grandi elettori, che sono i punti che servono per raggiungere la quota “presidente”, se vinci in collegi più popolati ottieni tanti voti, ma alla fine quello che conta è la somma dei punti e dunque puoi pure perdere. Non è questo il momento di mettersi a fare spiegazioni noiose sui sistemi elettorali – forse quello americano è sbagliato, forse è funzionale –, ma sta di fatto che numeri alla mano Trump non è il presidente voluto dalla maggioranza degli americani. Questa è una realtà che quelli de “il voto dei cittadini, i governi non eletti, e via dicendo fino alla pancia dei telespettatori” dovrebbero approfondire. Molti dei fan di Trump in Italia appartengono a una galassia sovranista che con varie sfumature e declinazioni potremmo definire “Italy First”, e sono quelli che lottano contro il sistema che impone regole (sia esso l’Europa, sia lo stato come lo conosciamo, l’amministratore di condominio, i punti del supermercato etc: sono fan perché per esempio, incontrano posizioni come quelle dello stratega politico di Trump, Steve Bannon, che durante il Cpac ha dichiarato che il suo obiettivo è disarticolare lo stato burocratico; qui serve realismo, capisco che non è che gli elettori italiani seguano passo passo quello che dice Bannon, ma alcuni ne apprezzano le conseguenze, vedi il “muslim ban”). Queste persone dicono che la gente deve riacquisire la propria sovranità e per sostenere la tesi lato atlantico della questione dicono che Trump ha vinto pure per questo e non sta facendo altro che quello che ha promesso: e Trump piace, qua e altrove, pure per questo (quando invece si voltano verso l’Est, gli stessi, prendono i sondaggi fallaci dei media di regime russi e dicono lo stesso di Vladimir Putin, che è il presidente voluto dal popolo, aggiungono, basta leggere i consensi; bastasse leggerli sì, poi guardando dietro c’è un mare di repressione delle opposizioni che fa in modo di alzare quei numeri).
TRUMP E I MEDIA
La vulgata dice dunque: evviva Trump che ha vinto le elezioni, lo avete capito chi sceglie la gente, ora lasciatelo in pace perché sta lavorando nella direzione che gli elettori gli hanno chiesto. Superato dunque il fatto che la gente non ha scelto lui, allora andiamo sul quel “lasciatelo in pace”, o non dovete criticarlo e via discorrendo. Devono i media lasciar perdere i governi e farli lavorare liberamente, senza raccontare, evidenziare, commentare, analizzarne le azioni? No, non è questo il compito della stampa, che nel mondo anglosassone viene definita watch-dog. Ma andiamo ancora oltre davanti a certe ovvietà. Trump sulla linea anti-media ci fa politica, perché li accusa di essere troppo severi con lui, e di più di raccontare notizie false sul suo conto e sul suo operato: disarticolare l’intero apparato della stampa internazionale è un altro dei punti che hanno contraddistinto finora l’operato del presidente americano. Non passa giorno che in cui non attacca i giornalisti, e questo suo modus operandi non è altro che un intercettare, inasprire forse, un sentimento corrente. Dei giornali, qua o in America, ci si fida poco. Cartina tornasole: ci si fidasse di più, alcuni siti sgangherati resterebbero tali, e invece guadagnano più click di quelli che spendono ore, fatica e sonno, per trovare e studiare le notizie. L’ultimo sondaggio fatto dalla Quninnipiac University (che ok, non è il Mit, ma dà un dato recente) dice che il 78 per cento dei Repubblicani americani tende a fidarsi più di Trump che dei media. Una mesata fa Gallup dava risultati tremendi.
Gallup: “Americans’ Trust in Mass Media Sinks to New Low.” Now at 32% fueled by Republican slide to 14%.https://t.co/zyLg4Uh4a6 pic.twitter.com/YiRbGm50ac
— Bob Toomey (@bob_toomey) 25 gennaio 2017
TORNADO AL ~SOTU, DUNQUE
Qui torna il ~Sotu: oggi i fan trumpiani saranno contenti perché i giornali hanno un approccio sostanzialmente benevolo nei confronti del presidente, e lo elogiano come un commander in chief che ha dato segno di credibilità (o almeno così “è sembrato”). Ovvio, ci sarà da vedere se è anche questo passaggio frutto di una strategia, cioè imbonirsi momentaneamente i repubblicani del Congresso con un discorso pacato nei toni. A livello di consensi potrebbe sembrare un problema: se i media sono malvagi, come Trump racconta, come possiamo noi elettori leggere positivamente il fatto che adesso ne parlino bene? Ma Trump non ha difficoltà a marcare questa discontinuità, perché ha appeal tra i suoi fan, che passano facilmente dal “oh che bello il presidente aggressivo, è quel che ci serve uno Zio severo” al “vedi che bravo il nostro uomo (forte), è anche in grado di saper essere moderato”. Ancora questa luna di miele “quel che fa è giusto” è appena iniziata. E Trump, che forse si è mosso in maniera soft al Congresso anche per compiacere le esigenze di un gruppo di normalizzatori che occupa gli alti ranghi della sua amministrazione e non apprezza troppo le sparate estemporanee sue o di Bannon, concede agli elettori zuccherini. Poche ore prima di essere così presidenziale a Capitol Hill aveva infatti alzato un’accusa gravissima contro il suo predecessore Barack Obama di essere il macchinatore di un complotto (a lui e ai suo fan piacciono molto gli scenari da cospirazione) di un sistema di opposizione feroce che passa dalle proteste dei cittadini in piazza alla fughe di notizie che hanno indubbiamente caratterizzato come non mai questa mesata di amministrazione. Lo ha detto a “Fox and Friends”, sfruttando uno dei pochi media che secondo lui fanno un lavoro “tremendous” (in senso positivo), buono, valido.