Immagino quanto Matteo Renzi abbia invidiato la premier inglese Theresa May, che ha potuto decidere da sola, dalla sera alla mattina, pur smentendo precedenti affermazioni, di mandare gli elettori alle urne prima della scadenza del mandato della parte elettiva del Parlamento, cioè la Camera dei Comuni. E i cittadini britannici sanno già la data in cui andranno a votare: giovedì 8 giugno. Tutto il resto ormai è formalità: la convalida parlamentare della decisione della signora May e la firma dell’anziana regina Elisabetta.
La sovrana al massimo avrà ricevuto dalla prima ministra la cortesia di una telefonata prima dell’annuncio ufficiale della sua decisione, motivata con le difficoltà di portare avanti i negoziati con Bruxelles per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea fra i contrasti che dividono le forze politiche inglesi. E nella convinzione di cogliere l’opposizione laburista nel momento della sua maggiore debolezza, per cui la signora leader dei conservatori avverte già la vittoria in tasca.
Tutto a Londra è stato ed è semplice, chiaro, rapido e trasparente. E’ l’opposto di quello che accade a Roma quando un governo si trova nelle stesse condizioni in cui si è messo o è stato messo quello inglese in questa incipiente primavera 2017.
Eppure l’Inghilterra non è la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, né l’Egitto di Abd al-Fattah al-Sisi, né la Libia di non so neppure chi. E’ la culla della democrazia moderna. E’ il Paese di Westminster e dell’annessa, maestosa torre dell’orologio. E’ il Paese al quale basta e avanza il canale della Manica per dire che il Continente è isolato quando vi cala la nebbia. Ah, che Paese, che Nazione, che Comunità, deve avere pensato il nostro giovane ex presidente del Consiglio. Egli vi si potrebbe trovare bene, raggiungendo amici che già vi risiedono, lavorano e guadagnano benissimo, se solo avesse meno ambizioni nazionali e sapesse naturalmente parlare l’inglese un po’ meno approssimativamente di quanto non lo parli, sia pure con la stessa disinvoltura con la quale indossa quei pantaloni che non raggiungono neppure le caviglie e quelle giacche che superano di poco la lunghezza di un gilè di taglia britannica.
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Al povero, italiano, toscano Matteo Renzi, figlio di Tiziano, bastò pensare alle elezioni anticipate la sera del 4 dicembre scorso, quando prese la sventola del referendum costituzionale ad opera di un’”accozzaglia” – l’aveva chiamata- di forze incapace di progettare insieme e di realizzare un canile, altro che un governo; bastò pensare alle elezioni, dicevo, per rischiare il mandato di cattura di qualche volenteroso magistrato in servizio permanente effettivo di “partigiano della Costituzione”, come una volta si vantò di essere Antonio Ingroia con la toga ancora addosso.
Bastò il 5 dicembre, o qualche giorno più avanti, che Renzi mandasse in avanscoperta il suo ancora ministro dell’Interno Angelino Alfano a dire che si potevano rinnovare le Camere già a febbraio, perché l’arresto del presidente del Consiglio dimissionario fosse eseguito e la chiave della cella buttata in qualche scarico del carcere. Tanto, il giovanotto non era e non è neppure coperto da quel poco che è rimasto delle vecchie immunità parlamentari, non essendo né deputato, né senatore né europarlamentare. E’ un giovanotto vulnerabilissimo, nonostante l’onnipotenza attribuitagli ossessivamente nella redazione del Fatto Quotidiano guidata con mano ferma da Marco Travaglio: il pubblico ministero – credo – più mancato d’Italia. Se ci fosse stato lui al posto del già impetuoso Antonio Di Pietro alla Procura di Milano nel 1992, ne avremmo viste di ancora più grosse e clamorose durante la stagione del terrore di Mani pulite.
Bastò, sempre dopo la sventola del referendum costituzionale del 4 dicembre, che Renzi dimettendosi da presidente del Consiglio accennasse al presidente della Repubblica l’idea delle elezioni anticipate per rischiare di perdere il saluto di Sergio Mattarella, che pure era arrivato al Quirinale meno di due anni prima grazie a lui. Che aveva preferito rompere il famoso Patto del Nazareno con Silvio Berlusconi, e prenotare così anche la sconfitta referendaria, piuttosto che trattare su un altro nome per la successione a Giorgio Napolitano. E perdere il saluto di Mattarella era pure poco, perché c’era anche il rischio che il presidente facesse chiamare un’ambulanza per favi infilare dentro l’ospite e mandarlo in qualche reparto di neurologia.
Non sto qui a ricordarvi quello che successe all’interno del Pd ancora popolato dai vari Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema quando sentirono gli amici di Renzi parlare di elezioni anticipate. Per poco non lo cacciarono via, prima di decidere di andarsene loro quando lui dalle elezioni ripiegò sul congresso anticipato.
A sentir parlare di elezioni prima della scadenza ordinaria delle Camere perse le staffe pure il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, spintosi a definire anormale un Paese dove si pensasse una cosa del genere. Ma dove i ricorsi anticipati alle urne si erano letteralmente sprecati, visto che a memoria posso elencare gli scioglimenti anticipati delle Camere del 1972, del 1976, del 1979, del 1983, del 1987, del 1994, del 1996, e del 2008: scioglimento, quest’ultimo, disposto proprio da Napolitano solo due anni dopo le elezioni ordinarie del 2006, vinte da un Romano Prodi travolto poi dall’arresto della moglie del suo ministro della Giustizia Clemente Mastella. Questo, giusto per rinfrescarsi la memoria.
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Allo scioglimento anticipato del 2016, visto il colpo inferto dal referendum costituzionale ad una legislatura già entrata in camera di rianimazione alla nascita, si è preferito questa lunga, tormentata, logorante campagna elettorale in corso ormai da più di un anno. Che, già calda di suo, si arroventerà con le elezioni amministrative dell’11 giugno e, in autunno, con la preparazione e il cammino parlamentare della legge finanziaria di lacrime e sangue attesa a Bruxelles.
Il fatto che non si vada alle elezioni anticipate perché non piacciono per varie ragioni ai partiti maggiori, ma anche minori, le leggi cucite nella sartoria della Corte Costituzionale per rinnovare la Camera e il Senato, e che proprio per ritardare al massimo il voto si faccia melina a Montecitorio sulla riforma o riformetta elettorale reclamata dal presidente della Repubblica per rassegnarsi allo scioglimento anticipato, non attenua ma aggrava la situazione. E dà la misura dello stato di paralisi al quale un Paese si può condannare da solo, sia pure per la paura di una paralisi peggiore dopo il voto.
Ma sì, lasciatemi dire con Renzi, che tuttavia temo non avrà il coraggio di gridarlo pubblicamente per non giocarsi il ritorno ormai vicinissimo alla segreteria del Pd: beati gli inglesi, Brexit a parte naturalmente.