Il patto repubblicano è scattato immediatamente: ancora non era ufficiale la vittoria di Emmanuel Macron al primo turno che i “tenori” della destra post-gaullista (come li chiamano i francesi) e Benoit Hamon, il candidato socialista, hanno annunciato il loro appoggio al secondo turno delle presidenziali il 7 maggio al leader di En Marche. Tutti contro Marine Le Pen. Tutti proprio no, perché si è chiamato fuori Jean-Luc Mélenchon, l’ex trotzkista che i mass media avevano accredito addirittura del secondo posto subito dopo la Le Pen. Sì, perché non si può dimenticare che a lungo è stata sventolato il drappo dei due populismi, così pieni di convergenze parallele, che marciano verso l’Eliseo.
Mélenchon ha ceduto al riflesso pavloviano della sinistra radicale, un cupio dissolvi all’insegna del tanto peggio tanto meglio, una vocazione minoritaria e perdente che ha provocato finora l’eutanasia politica della sinistra novecentesca in Europa e negli Stati Uniti (anche se il partito democratico non può essere assimilato ai socialisti europei).
Reggerà fino all’ultimo questo patto anti-estremista e anti-populista? I sondaggi accreditano a Macron una maggioranza ampia, addirittura due terzi, ma è meglio incrociare le dita e stare ai fatti, si tratta di proiezioni rebus sic stantibus e molte cose possono cambiare in due settimane. In ogni caso, qualche considerazione si può già fare.
Il Front National ha ottenuto un risultato storico, su questo la sua leader ha ragione. E’ vero, il padre Jean-Marie passò al secondo turno contro Chirac nel 2002, quindi si deve a lui il primato temporale, ma non aveva ottenuto tanti voti come la figlia che in questi anni ha cercato di separarsi dal passato neofascista, di far dimenticare la tomba di Predappio e la fiamma tricolore che si leva (un simbolo mutuato dal Movimento sociale italiano di Almirante del quale Le Pen era grande ammiratore), per cavalcare la nuova onda, quella populista. Tutto dal popolo, tutto per il popolo come giurava in bel altro contesto Lin Biao nella rivoluzione culturale maoista.
“Né di destra né di sinistra” si proclama Marine Le Pen e in effetti se si guardano i programmi elettorali (per quel che valgono) si trova una serie impressionante di convergenze con Mélenchon (dal no alla globalizzazione all’euroscetticismo, dal nuovo nazionalismo definito sovranista, dal protezionismo economico alla chiusura delle frontiere). Insieme, i due candidati hanno avuto il consenso di oltre il 40% dei francesi che è davvero molto, ma non è la maggioranza. E’ bene ricordarlo a tutti quelli che, come Salvini, già battono la grancassa.
Al di là delle singole proposte e dei rispettivi proclami, quel che più conta è il contrasto di fondo, tra due visioni del mondo e soprattutto tra due atteggiamenti. Lo scontro al secondo turno è tra l’ottimismo della ragione e i seminatori d’angoscia, i profeti dell’apocalisse. Macron lancia un messaggio positivo: le cose vanno male, il vecchio sistema politico non regge più, non ha saputo dare risposte ai problemi in parte nuovi e in gran parte vecchi, radicati, incistati, della Francia. Ma è possibile trovare insieme le soluzioni. Nessun miracolo, nulla di salvifico, bisogna affrontare le cose per quel che sono e cercare le vie d’uscita.
Le riforme proposte da Macron sono più moderate di quelle presentate da Fillon (niente abolizione delle 35 ore, per esempio, niente aumento dell’età pensionabile, ma una revisione di un sistema farraginoso, confuso, costoso e iniquo), ma più realizzabili nel breve periodo. Pragmatismo, concretezza, e nello stesso tempo credibilità. Perché ci vuole un volto nuovo, con un approccio non dogmatico e non ideologico per affrontare una crisi, non solo economica, ma politica, sociale, ideale, che è in gran parte nuova, riproporre le vecchie strade sarebbe condannare il paese a una drammatica sconfitta.
E quelle proposte da Marine Le Pen (e in gran parte da Jean-Luc Mélenchon) sono vecchie e stantie. Le abbiamo già viste all’opera. Il protezionismo è una costante della Francia dai tempi di Colbert e del Re Sole. Il nazionalismo ha condannato il Paese a una catena di sconfitte che partono dal 1870 e a una guerra permanente con la Germania. Lo statalismo ha anchilosato le grandi energie intellettuali e tecnologiche di una economia forte nei servizi e nelle grandi infrastrutture, ma debole nel tessuto produttivo, un Paese diventato meno manifatturiero dell’Italia (ed è evidente che né l’euro né i dazi c’entrano niente se lo stesso regime ha favorito gli italiani e non solo i tedeschi). Potremmo continuare a lungo, ma sarebbe una litania scontata.
Il Front National illude gli elettori di poter curare il mal francese con le vecchie medicine che non hanno funzionato in passato. Macron non presenta nessuna bevanda miracolosa, ma una ricetta basata sulla osservazione della realtà, sull’esperienza, sul valore dei fatti e della prova. In fondo non è questo il metodo dell’Occidente, quello sul quale si è basata in passato la sua forza e si basano i suoi valori? Bisognerebbe ricordarlo a tutti i profeti del declino (se ne parla in realtà da oltre cent’anni) e a chi lamenta la mancanza di strumenti culturali per contrapporsi all’ondata dell’islamismo radicale.
Il metodo scientifico-razionale mutuato dai greci segnò il “rinascimento islamico” a cavallo del primo millennio, il suo abbandono ha segnato la sua decadenza. Quella fiaccola è stata riaccesa dagli italiani e poi dagli olandesi dal XIII e XIV secolo, l’Europa l’ha fatta cadere nella polvere nel secolo breve quello delle ideologie totalitarie. E adesso c’è chi vorrebbe spegnerla?