Altro che un altolà, l’ennesimo, alle elezioni anticipate, come i contrari a questa prospettiva hanno voluto interpretare con disarmante ingenuità, o eccessiva e disdicevole malizia, il pranzo improvvisato al Quirinale dal capo dello Stato con i presidenti delle Camere, Pietro Grasso e Laura Boldrini. Cui Sergio Mattarella ha deciso di sollecitare a quattr’occhi, senza perdere tempo con un messaggio al Parlamento, che tuttavia non è da escludere, l’approvazione della riforma o riformina elettorale da lui giustamente ritenuta indispensabile dopo i tagli apportati dalla Corte Costituzionale alle leggi che disciplinano il rinnovo del Senato e della Camera. Leggi che, pur essendo immediatamente applicabili, secondo una specie di certificazione rilasciata dalla stessa Corte decidendone le amputazioni, produrrebbero risultati elettorali da far mettere le mani nei capelli, almeno a chi li ha. E Mattarella ne ha.
Già questo la dice lunga sui criteri ben poco logici con i quali si è presa l’abitudine di lavorare nel Palazzo della Consulta, peraltro dirimpettaio del Quirinale. Ma questo è un altro discorso, peraltro inutile perché per porvi rimedio bisognerebbe rimettere mano alla Costituzione e disciplinare diversamente competenze e funzionamento della Corte. Figuratevi se è immaginabile qualcosa del genere dopo la miseranda fine riservata a stragrande maggioranza dagli elettori, nel referendum del 4 dicembre, scorso alla riforma targata Renzi, peraltro dopo la bocciatura di un’altra riforma costituzionale: quella del 2005 varata dalla maggioranza di centrodestra guidata da Silvio Berlusconi.
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Se Mattarella ha sentito il bisogno e l’urgenza di convocare i presidenti delle Camere per sollecitare un intervento legislativo sulle regole elettorali, pur scadendo tra febbraio e marzo dell’anno prossimo la legislatura cominciata nel 2013, vuol dire ch’egli sente dalla postazione del Quirinale puzza di bruciato. Egli avverte cioè il rischio, di fronte ai tanti problemi che si accavallano e alle tensioni politiche che aumentano, di trovarsi ben prima della scadenza ordinaria della legislatura alle prese con una crisi governativa di tale gravità da non lasciargli altra via d’uscita che le elezioni anticipate, appunto. Con la conseguente certezza di trovarsi dopo il voto in una situazione ancora peggiore, determinata dall’impossibilità di conciliare la maggioranza di una Camera con quella dell’altra. Sarebbe un manicomio, cui tornando ancora a votare ne seguirebbe un altro. E via di seguito sino al fallimento della democrazia, cui sopravviverebbero, ma neppure a lungo, solo i giudici costituzionali. Che scadrebbero pure loro, uno dopo l’altro, al compimento del nono anno del proprio mandato.
Il guaio del povero Mattarella, a meno che a tempo debito non si spazientisca a tal punto da autorizzare il governo del conte Gentiloni a intervenire clamorosamente sulla materia elettorale con un decreto legge, immediatamente applicabile, è che i presidenti delle Camere da lui invitati a pranzo non sono gli interlocutori ideali per la fretta che egli ha di rimediare ai pasticci combinati dalla Corte nella illusione che vi potesse provvedere un Parlamento solerte e, direi, assennato.
Gli interlocutori di Mattarella in un processo normale sarebbero giudici ricusabili perché sul problema delle elezioni anticipate si sono entrambi già pronunciati, e nello stesso modo. Spalleggiati anche dal presidente emerito della Repubblica e senatore a vita Giorgio Napolitano, tanto Grasso quanto la Boldrini si sono dichiarati non contrari ma contrarissimi allo scioglimento anticipato delle Camere, ritenendo che esse abbiano ancora tante cose da fare che sarebbe una specie di delitto interromperne la durata, neppure se scoppiasse una crisi di governo e non si riuscisse a formarne un altro. O per formarlo occorresse tanto di quel tempo da esaurire solo per questo la parte residua della legislatura, e ad attività parlamentare naturalmente bloccata, e ricorso obbligatorio al cosiddetto esercizio provvisorio del bilancio. Siamo ad un altro pasticcio, politico e istituzionale, non meno anacronistico di quello prodotto dagli illustrissimi giudici del Palazzo della Consulta.
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Una ulteriore prova del fatto che gli interlocutori pur naturali di Mattarella sul tema quanto meno dei tempi della riforma o riformina elettorale siano i meno indicati o adatti all’urgenza responsabilmente avvertita dal capo dello Stato è arrivata con l’annuncio, successivo al pranzo svoltosi al Quirinale, della data scelta per portare in aula, alla Camera, l’argomento. Cioè, la discussione della proposta di legge con la quale cercare almeno di “armonizzare”, come dice lo stesso Mattarella, le regole per il rinnovo dei due rami del Parlamento.
Se ne parlerà non domani, né dopodomani, né martedì prossimo, essendo lunedì la festa del lavoro, ma lunedì 29 maggio. Quindi, con calma. Con molta, anzi moltissima calma. Destinata ad aumentare perché nel mese di giugno i parlamentari reclameranno prevedibilmente le solite pause per partecipare nei loro collegi alle elezioni amministrative dell’11 giugno e ai ballottaggi di due settimane dopo. Si tratta di un test elettorale tanto diffuso, da nord a sud, da essere avvertito da tutti i partiti come una scadenza politicamente decisiva.
Se fossi stato nei panni del presidente della Repubblica, all’annuncio della data del 29 maggio avrei sbattuto il telefono in faccia al pur autorevole interlocutore, o interlocutrice. E avrei dato in escandescenze in tutto il palazzo del Quirinale, annessi e connessi, compreso il terrazzo che si affaccia sulla piazza omonima. Ma per fortuna Mattarella ha un sistema nervoso che mi sembra solidissimo. E io, modestamente, non sono nessuno. E magari rischio, per ciò che ho osato scrivere, una considerazione peggiore di quella che mi sono permesso di esprimere, o far capire, nei riguardi dei giudici costituzionali.