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Alitalia, tutti gli effetti della vittoria del No al referendum

Di Bruno Guarini e Fernando Pineda
LUIGI GUBITOSI, alitalia

Alitalia si prepara ad atterrare. Definitivamente. Ieri il referendum indetto tra i lavoratori ha sonoramente bocciato l’accordo trovato, con molta fatica, tra azienda e sindacati, con la mediazione del governo. Il 68% dei dipendenti ha detto no, una sconfessione netta e senza appelli quella degli addetti Alitalia, considerata anche l’altissima partecipazione, vicina al 90 per cento (circa diecimila votanti su undicimila aventi diritto)

A pesare è stato soprattutto il personale di volo – piloti e assistenti di volo – dove la percentuale dei no ha superato il 90 per cento. Anche nella parte dei dipendenti di scalo ha prevalso la bocciatura con una percentuale di circa il 60 per cento, mentre avevano dato la loro approvazione all’accordo gli impiegati (63%) e la manutenzione (67%).

COSA PREVEDEVA L’ACCORDO

Il verbale di preaccordo siglato il 14 aprile prevedeva un taglio del costo del lavoro di 670 milioni in 5 anni, da raggiungere attraverso 980 esuberi tra il personale di terra (rispetto agli iniziali 1.338). Si trattava di esuberi che avrebbero fatto ricorso alla cassa integrazione per due anni, al termine dei quali sarebbero stati riassorbiti in azienda oppure avrebbero beneficiato di ulteriori due anni con la Naspi, ex indennità di disoccupazione.
Al personale navigante veniva chiesto invece un taglio della busta paga dell’8 per cento, un rallentamento degli scatti di azianità (triennali e non annuali), una diminuzione del numero di riposi annui (da 120 a 108) e un tetto del 25% agli aumenti salariali nel caso di promozioni per i piloti.
Un accordo che, secondo l’azienda, avrebbe permesso di raggiungere un risparmio in 5 anni di 670 milioni, un terzo circa dell’obiettivo del piano.

COSA PREVEDEVA IL PIANO

Con l’ok all’accordo sarebbe scattata la manovra finanziaria approvata dai soci per circa 2 miliardi di euro, tra nuova finanza (900 milioni) e riconversione di debiti. All’interno dell’operazione era previsto anche un cuscinetto di garanzia chiesto dall’asseveratore di 400 milioni in caso di andamento dei conti non in linea con quanto atteso, un cuscinetto la cui metà sarebbe stata versata dallo stato attraverso la società Invitalia. Il piano industriale prevedeva lo sviluppo del lungo raggio con l’arrivo entro il 2021 di ben 14 aerei di lungo raggio (attualmente Alitalia ha una flotta per i viaggi lunghi di solo 25 aerei).

Un piano che il presidente designato Luigi Gubitosi giudicava però troppo timido sui ricavi e che, a suo dire, sarebbe stato opportuno correggere in corso d’opera. Anche l’esperto Mario Sebastiani sul Sole 24 ore di questa mattina giudica il piano “non dissimile da quelli precedenti” con troppi pochi soldi per un “rilancio concreto e di ampio respiro”.

CHI HA VINTO

La parte del vincitore ieri l’ha  recitata il sindacato autonomo Cub, anima del fronte del No. Un sindacato con una posizione molto marginale come numero di iscritti che però è riuscito a cavalcare il malcontento tra i dipendenti per l’ennesima richiesta di sacrifici e ad essere più persuasivo delle organizzazioni tradizionali come Cgil, Cisl, Ugl e anche le associazioni professionali del personale di volo Anpac e Anpav. La Uil aveva mantenuto invece un atteggiamento più ambiguo, sottoscrivendo la bozza di accordo al ministero dello Sviluppo economico, dando però libertà di voto agli iscritti in quanto la loro costola Uil Piloti aveva preso posizione per il no. Il Cub invoca ora la nazionalizzazione della compagnia, un provvedimento in stile Monte dei Paschi di Siena che, però, al momento non sarebbe consentito dalle norme comunitarie. “All’estero tutte le grandi compagnie come Lufthansa, Klm, Air France, British Airways, Iberia sono controllate di fatto dallo Stato, perché in Italia non si può fare?”, ha chiesto Fabio Frati, il leader del fronte del no (in realtà la compagnia inglese – che controlla anche Iberia – non ha alcuna partecipazione pubblica).

SCENARI FOSCHI

La consultazione referendaria ieri è stata seguita attentamente da Palazzo Chigi. Il premier Paolo Gentiloni a urne aperte aveva già fatto appello al senso di responsabilità dei lavoratori Alitalia, anticipando che non ci sarebbero state soluzioni alternative. Ieri notte i tre ministri che hanno seguito in prima persona la trattativa – Carlo Calenda, Graziano Delrio, Giuliano Poletti – hanno diramato una nota di forte delusione (“rammarico e sconcerto per l’esito del referendum Alitalia che mette a rischio il piano di ricapitalizzazione della compagnia”) e, come governo, si chiamavano fuori dalle possibili se non inevitabili conseguenze sul piano sociale. A questo punto l’obiettivo del governo, in attesa di capire cosa decideranno gli attuali soci di Alitalia, “sarà quello di ridurre al minimo i costi per i cittadini italiani e per i viaggiatori”: un miliardo di euro, tra ammortizzatori sociali e altro, secondo le prime stime del governo. Oggi si riunirà il consiglio di amministrazione della compagnia a cui probabilmente seguirà un vertice con il governo. Si attende l’avvio della procedura verso il commissariamento, circola già il nome del professor Enrico Laghi come possibile commissario.

COSA SIGNIFICA COMMISSARIAMENTO

Per Alitalia si tratterebbe di un percorso noto, avendone già fatto ricorso nel 2008, nella fase embrionale all’avvio dell’operazione di sistema dei “capitani coraggiosi” voluta da Silvio Berlusconi e pianificata a livello industriale dall’allora amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Corrado Passera. La procedura Marzano si applica alle aziende insolventi con almeno 500 dipendenti ed è stata introdotta nel nostro ordinamento dopo il crack della Cirio e di Parmalat. La procedura viene aperta dal ministro dello Sviluppo economico con un apposito decreto che nomina un commissario con pieni poteri, a cui si danno 180 giorni di tempo per mettere a punto un programma di ristrutturazione dell’azienda, anche attraverso revocatorie contro gli atti dannosi per i creditori compiuti dall’imprenditore prima di essere ammesso alla procedura e proporre ai creditori un concordato come strumento per la chiusura della procedura. Lo scenario finale prevede la vendita (in blocco o a spezzatino) dell’azienda ad un terzo oppure l’inevitabile fallimento.

STRASCICHI GIUDIZIARI

C’è poi il delicato tema delle conseguenze giudiziarie. Come si ricorderà il fallimento del 2008 della vecchia Alitalia portò all’avvio di un’inchiesta giudiziaria che in primo grado ha condannato gli ex capiazienda Giancarlo Cimoli e Francesco Mengozzi per aver gestito in maniera dissennata i conti dell’aerolinea. Non è escluso che anche questa volta si apra un faro sulla gestione disastrosa della nuova Alitalia. Le scelte strategiche sono state compiute tutte da Etihad Airways che in questi due anni e mezzo ha espresso i due amministratori delegati (Silvano Cassano e Cramer Ball), ma che potrebbe coinvolgere anche altri membri del consiglio di amministrazione. Come ricorda il Sole 24 Ore,  fino a dicembre nel cda di Alitalia sedevano l’attuale ad di Unicredit Jean Pierre Mustier, il vicepresidente di Intesa Paolo Colombo, tanto che i legali dei due istituti di credito avrebbero rivisto tutte le delibere del board della compagnia per scongiurare un possibile coinvolgimento dei due ex consiglieri. Etihad ha infatti “solo” il 49% di Alitalia, la quota di maggioranza, il 51%, è detenuta dall’italiana Cai, dove il 65% è suddiviso proprio tra Unicredit e Intesa Sanpaolo.


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