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Ecco l’arma economica che ha in mano l’Europa contro la Turchia

Giuseppe Pennisi

Il presidente della Repubblica Turca, Recep Tayyip Erdoğan, afferma di avere vinto anche se di misura, il referendum costituzionale, ma all’interno del Paese e all’estero sono pochi ad essere d’accordo con lui.

All’interno, le polemiche riguardano essenzialmente la decisione della Commissione elettorale di conteggiare come valide anche le schede senza timbro ufficiale, salvo esplicite prove di frodi. Una decisione che è stata messa in atto a urne aperte nel momento in cui si è percepito che i voti per il no erano in vantaggio su quelli per il sì. Il “fronte del no” , inoltre, denuncia che almeno per la prima mezz’ora è stato impedito agli osservatori dell’opposizione di assistere allo scrutinio, come previsto dalla legge. Il Chp, il principale partito di opposizione, avanza formalmente la richiesta alla Commissione elettorale suprema. Anche il partito filo-curdo Hdp si mobilita contro il risultato del referendum: se la Commissione elettorale suprema turca non annullerà le contestate schede senza timbro, presenterà un ricorso alla Corte europea dei diritti umani.

All’estero pesa e non poco la presa di posizione dell’Osce: “Non è stato all’altezza degli standard del Consiglio d’Europa. Il contesto legale è stato inadeguato allo svolgimento di un processo genuinamente democratico”. Così Cezar Florin Preda, a capo della delegazione di osservatori dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. La Commissione europea “prende nota dei risultati diffusi in Turchia sugli emendamenti della Costituzione, e attende la valutazione della missione Osce-Odihr sulle eventuali irregolarità. Gli emendamenti costituzionali e specialmente la loro attuazione pratica saranno valutati alla luce degli obblighi della Turchia in quanto Paese candidato alla membership Ue”. È quanto si legge in un comunicato congiunto del presidente della Commissione Jean Claude Juncker, dell’Alto rappresentante Federica Mogherini e del commissario alla politica di vicinato Johannes Hahn. I tre incoraggiano la Turchia “ad affrontare le raccomandazioni del Consiglio d’Europa, incluse quelle sullo stato d’emergenza”.

Al momento in cui scrivo solo la piccola Austria ha risposto per le rime chiedendo di interrompere le trattative per l’ingresso di Ankara nell’Ue. “La Turchia non può essere un membro dell’Ue”, ha detto il ministro degli Esteri Kurz all’agenzia Apa. “Bisogna porre fine alla “finzione” dell’adesione” ha aggiunto, sollecitando piuttosto un accordo di vicinato. Il voto è stato anche “un chiaro segnale contro la Ue, al quale l’Europa deve rispondere a sua volta con una chiara reazione: “Occorre finalmente sincerità sui rapporti tra la Ue e la Turchia. Il tempo dei tatticismi deve finire”.

Gli altri leader europei si sentono in gran misura sotto schiaffo in quanto temono che la Turchia denunci l’accordo per la gestione dell’arrivo dei migranti sulle coste greche e turche, un accordo per il quale l’Ue già paga Ankara in misura significativa (sei miliardi di euro in due rate, una per il 2017 e una per il 2018).

Pochi hanno riflettuto sul fatto che l’Ue ha un’arma importante: l’accordo di unione doganale concluso nel 1995 nell’ottica che la Repubblica avrebbe proseguito sul percorso della europeizzazione. Un accordo omnicomprensivo, con l’eccezione dei prodotti agricoli e di quelli del carbone e dell’acciaio. A ragione dell’accordo, l’Ue è il  numero uno nel commercio estero della Turchia, mentre la Repubblica di Turchia occupa il settimo posto nei mercati d’importazione dell’Ue e il quinto in quelli di esportazione.

Queste cifre dicono poco. Più eloquente è lo studio Twenty Years of the EU-Turkey Customs Union. A Synthetic Control Method Analisys (Venti anni di unione doganale Ue-Turchia), pubblicato sull’ultimo fascicolo del Journal of Common Market Studies Vol. 55, Fascicolo £, pp. 419-43 (il Journal è da 55 anni la più autorevole rivista europea di economia e politica). Il saggio, che utilizza un raffinato metodo econometrico, è stato redatto da autorevoli economisti turchi (Hüseyin Aytuğ, Gulf Monetary Council; Merve Mavuş Kütük, Government of the Republic of Turkey – Central Bank of the Republic of Turkey; Arif Oduncu, Government of the Republic of Turkey – Central Bank of the Republic of Turkey; Sübidey Togan, Bilkent University).

La conclusione è che, senza l’accordo, le esportazioni turche verso l’Ue sarebbero state il 38% di meno di quello che sono oggi e il Pil pro capite il 18% di quello raggiunto nel 2016. Pensaci, Europa: basterebbe minacciare la sospensione dell’accordo, per indurre Erdogan a più miti consigli.


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