Mercoledì è stata comunicata (più o meno) ufficialmente la decisione della Casa Bianca di rimuovere Stephen Bannon dal ruolo ricoperto all’interno del comitato principale del Consiglio di Sicurezza nazionale (Nsc). La scelta di Donald Trump ha un valore simbolico, di ugual modulo ma direzione opposta all’inserimento del suo stratega nel team più ristretto, e permanente, dell’organo della West Wing che indirizza le decisioni sulle questioni di national security (cioè, in una descrizione rapida, su tutto ciò che conta, visto che ne fanno parte quasi tutti i segretari con incarichi strategici).
L’INSERIMENTO DI BANNON
Se inserirlo nel team era stata una forzatura che aveva dato due generi di segnali – primo, Trump ha intenzione di controllare politicamente anche l’Nsc; secondo, Bannon è davvero molto potente se è stato messo qui per controllare il Consiglio –, toglierlo significa limitare in parte il potere del più controverso tra gli uomini del presidente e far gongolare ampi settori dell’Intelligence che vedevano Bannon come fumo negli occhi. Bannon è il filosofo del trumpismo, l’uomo che aveva immaginato quello che Trump potrebbe rappresentare (e ha rappresentato a livello elettorale) già da prima della discesa in campo di Trump, il pensatore della “decostruzione dello stato burocratico”. Sul suo sito Breitbart News, di cui è stato fondatore ma non è più Ceo, circolano da anni tutte le tesi nazionaliste dell’attuale presidente: se c’è un uomo che può incarnare gli slogan “Make America Great Again”, attraverso “America First”, quello è proprio Bannon. Va da sé che molte delle spinte cospirazioniste che hanno permesso a un certo genere di elettorato – bianco, poco istruito, saturo delle dinamiche del sistema e tendenzialmente aperto a vederle come un generale complotto – di diventare la principale costituency di Trump, sono arrivate proprio da Breitbart. Che ha sovente ripreso, o creato, anche le più sgangherate storie diffamanti contro Hillary Clinton.
L’APPROVAL CONTRO BANNON
Uno dei motivi dietro alla rimozione di Bannon potrebbe legarsi, adesso, proprio a quella costituency. La percentuale degli “approval“, ossia coloro a cui Trump piace quel tanto che basta per “approvarlo” come presidente, è intorno al 39,8 per cento e sta seguendo un “trend drammatico”, scrive Vox: il distacco di quelli che lo “disapprovano” è di 13,5 punti percentuali, e non è un bel substrato per governare. Ossia, quel tipo di elettorato mosso da Bannon non paga più, e dunque la sua linea dura vale un po’ meno: un po’, chiaramente, perché Bannon resterà comunque il consigliere strategico della Casa Bianca, e dunque uno dei più intimi del presidente, ma possibile (secondo le ricostruzioni dei media americani, in cui in queste ore impazzano indiscrezioni e fonti anonime) che Trump abbia voluto punire Bannon, per esempio per la rotta tenuta sulla riforma sanitaria, quando la Casa Bianca si piazzò di traverso ai deputati repubblicani indecisi, intimò un ultimatum, ma non fu ascoltata e il voto – con la riforma – saltò. Erano due settimane fa. Altro aspetto: Bannon era troppo sotto i riflettori, per esempio, i democratici lo avevano iniziato a chiamare “President Bannon”, per le sua tendenza “Svengali-style” (gran definizione del New York Times), e questo non sarebbe stato il massimo per un accentratore come Trump.
IL LAVORO, FINITO, DI BANNON NELL’NSC
Tuttavia, la linea ufficiale sostenuta dalla Casa Bianca è che quella di Bannon non è una “retrocessione”, ma in realtà lui aveva finito il lavoro all’interno del Consiglio: un lavoro che sarebbe consistito nel veicolare la transizione tra l’organismo con la targa obamiana di Susan Rice (al centro di polemiche legate al caso intercettazioni Obama-Trump in questi giorni) e quello attuale, ma soprattutto controllare il capo dell’Nsc inizialmente nominato da Trump, Michael Flynn. E questo non è indice di un buon clima tra i pesi e i contrappesi che si aggirano intorno allo Studio Ovale. Flynn era stato nominato nonostante fosse considerato un elemento discutibile e con pessime esperienze nei ruoli di leadership: il consigliere si è dimesso dopo una quarantina di giorni perché ha mentito all’Fbi e al vice presidente a proposito di una sua conversazione con l’ambasciatore russo negli Stati Uniti. Bannon come balia significa che nemmeno Trump si fidava troppo di uno dei suoi consiglieri più importanti? E ancora, ora si fida?
L’ARRIVO DI MACMASTER
Le dimissioni di Flynn hanno portato alla guida del consiglio il generale tre stelle HR McMaster, considerato uno degli ufficiali intellettuali delle forze armate americane. Un funzionario che ha parlato con Fox News, rete vicinissima al presidente, ha spiegato che McMaster può fare da solo quello che Flynn avrebbe dovuto fare insieme a Bannon, e dunque Bannon aveva finito il suo lavoro all’interno del Consiglio. Ma è noto che McMaster ha accettato il ruolo offertogli mettendo come garanzia la massima indipendenza. Ed è noto che il generale non ha troppa confidenza con le dinamiche politiche a cui si legava la presenza di Bannon nell’Nsc. Prima della rimozione dello stratega, c’erano già stati alcuni segnali in questo senso. Per esempio, la nomina di Dina Powell al vertice della strategia del Consiglio, ossia sulle policy a lungo termine che usciranno dalla Casa Bianca i materia di sicurezza nazionale. Powell è una veterana dei consulenti dell’amministrazione, ha lavorato alla Casa Bianca e al dipartimento di Stato, e ha strette relazioni con McMaster (ha anche gestito i contatti di Trump con i sauditi): dall’Nsc gestirà anche la creazione di una linea inter-agenzia tra dipartimento di Stato, Difesa e Cia. Powell piace al partito repubblicano (come McMaster), Bannon no.
IL RIEQUILIBRIO DELL’INNER CIRCLE
Inoltre Powell manterrà il suo ruolo di consulente al consiglio per le iniziative economiche della Casa Bianca, ossia resterà a lavorare a stretto contatto con Jared Kushner e Ivanka Trump, genero e figlia di Trump (di cui Powell è intima consigliera). Ivanka è da poco stata ufficialmente inserita tra i consiglieri dello Studio Ovale, Kushner già lo era, e la rimozione dall’Nsc di Bannon può essere letta anche come un sostanziale riassetto del potere tra i più intimi uomini di Trump. Tra questi, Rience Priebus, il capo dello staff, e l’altra consigliera onnipotente, Kellyanne Conway. Il riequilibrio dell’inner circle è questione che si vedrà nel tempo, attraverso segnali poco espliciti. Intanto un occhio va ancora messo sull’Nsc, perché c’è un altra persona in un altro posto chiave il cui futuro va monitorato: si tratta di KT McFarland. L’esperta ex opinionista di Fox era stata chiamata da Flynn come sua vice, ed è tuttora rimasta nell’incarico, ma non piace a McMaster (e al partito). L’inserimento di Powell è un segnale per bilanciarla, e secondo la CNN potrebbe aver sul tavolo un’offerta per andare a fare l’ambasciatrice a Singapore o un ruolo nel dipartimenti di Stato in cambio di un suo allontanamento dall’Nsc. McMaster sta facendo un lavoro di ripulitura nel consiglio: a inizio marzo ha cercato di rimuovere dal suo ruolo Ezra Coehn-Watnick, trentenne messo da Flynn alla guida del team di intelligence dell’Nsc, e considerato colui che ha preparato il fascicolo sulle intercettazioni involontarie dell’amministrazione Obama nei confronti di Trump, poi consegnato al chairman della Commissione intelligence della Camera Devin Nunes, creando un caso politico. Coehn-Watnick è per il momento rimasto al suo posto, perché pare che Bannon si sia messo di traverso alle volontà di McMaster. Ma ora Bannon è fuori, McMaster è diventato con il memorandum di mercoledì anche capo del Consiglio dell’Homeland Security, e il Joint Chief of Staff e i direttori di National Intelligence e Cia sono rientrati come permanenti nel Consiglio: un’altra normalizzazione dopo la loro strana esclusione.