“È molto difficile fare previsioni, specialmente riguardo al futuro”. Questa battuta, apparsa sul Bulletin of the Atomic Scientists nel 1971, è ancora attualissima. Come nel 1971, il mondo è attraversato da forti tensioni e l’Italia sta uscendo faticosamente da una lunga e profonda crisi. In sette anni, tra il 2008 e il 2015, il tasso di disoccupazione è quasi raddoppiato, passando dal 6,7 all’11,9% (Istat). Tra i più colpiti ci sono i giovani fino a 34 anni, di cui circa un terzo non lavora, ma anche i cinquanta-sessantenni.
Tra le zone più colpite c’è certamente il sud (42% di disoccupazione giovanile), ma anche alcune aree del centro-nord, che stanno vivendo un processo di deindustrializzazione. In otto anni, dal 2007 al 2015, le famiglie appartenenti al ceto medio (chi ha 2.500 euro di reddito mensile nella fascia di età centrale, definizione Ocse) sono calate di 18 punti percentuali, dal 57% al 39%, passando da oltre 14 milioni a poco meno di 10 milioni (Doxa per Centro Einaudi e Banca Intesa Sanpaolo, Indagine sul risparmio e sulle scelte finanziarie degli Italiani 2016). Dato ancora più preoccupante, quasi il 29% della popolazione italiana è a rischio di esclusione sociale a causa di povertà, grave deprivazione materiale o bassa intensità di lavoro (Istat 2016). Alla fine dei turbolenti anni 70, gli elettori americani elessero Ronald Reagan, che inaugurò il lungo ciclo dell’edonismo. Quarant’anni dopo, l’ultimo decennio di crisi internazionale ha portato alla Brexit e all’elezione di Donald Trump. Due momenti di forte discontinuità con il passato.
Quale futuro ci aspetta? La miscela di crisi economica, globalizzazione, impatto delle nuove tecnologie sul mercato del lavoro e dei consumi è molto sfidante. Il ministero del Lavoro americano ha stimato che il 65% di bambine e bambini iscritti alle elementari non farà alcun lavoro a noi conosciuto. Anche il professor Michio Kaku, fisico teorico americano di origine giapponese, futurologo ascoltato da multinazionali e governi, conferma che i prossimi anni saranno teatro di sorprendenti scoperte che ci costringeranno a evolvere sempre più rapidamente. Due anni fa, un team di ricercatori del Mit di Boston è riuscito a impiantare dei ricordi felici nel cervello di un topo. Traslato sull’uomo, l’effetto sarà dirompente. Mentre è chiaro il contributo nella gestione di disabilità e malattie degenerative, come l’Alzheimer, è meno evidente che i nostri pronipoti potrebbero ritrovarsi, in un lontano futuro, a parlare con un nostro avatar, cui è stata caricata tutta la nostra memoria scannerizzata in vita. Queste scoperte avranno implicazioni etiche, giuridiche e sociali tutt’altro che banali.
Nei prossimi 5-10 anni i servizi saranno fruiti ovunque e da nessuna parte. L’elettricità fluirà direttamente dai muri e dai soffitti, non ci saranno più le prese. Saremo sempre connessi con Internet, i dati e le news saranno fruiti attraverso gli occhiali e le lenti a contatto. Le pareti di casa saranno schermi giganti e si farà sempre più co-working e smart working. Il fenomeno è già in atto. In Italia, nel 2015, il 17% delle grandi imprese aveva progetti strutturati di smart working (era l’8% nel 2014 – Doxa, Osservatorio smart working della School of management del Politecnico di Milano). Nel 2016, la smart home valeva 185 milioni di euro, ma nel 2017 si stima un forte aumento del giro d’affari (Doxa, ricerca Smart home dell’Osservatorio Internet of things della School of management del Politecnico di Milano). I cellulari avranno uno schermo srotolabile fino alle dimensioni di una Tv, sarà in 3D e si vedrà senza occhialini. Questo cambierà il modo di comunicare, esporsi ai mezzi di comunicazione e lavorare. Pensiamo alla musica: il più grande player mondiale è diventato Apple, con iTunes. La medicina è sempre più tecnologica.
I giochi: in Italia, nel 2016, la spesa per i bambini di età 3-13 anni è stata di tre miliardi di euro e la componente tecnologica nei giochi sta aumentando di valore (Doxa Kids, analisi desk sui settori di riferimento). La finanza e il banking sono ormai ampiamente impattati dalla digitalizzazione con la conseguente disintermediazione degli sportelli. Ancora: l’auto senza guidatore debutterà entro il 2020. Non servirà più la patente, andranno rivisti il codice stradale e le assicurazioni perché guidare un’auto mentre si parla al cellulare e si leggono i giornali sarà legale (lo è già in California). La moda: i vestiti saranno in cloud, taglie e modelli saranno sempre disponibili, magazzini e resi saranno un ricordo. Nei cantieri, al posto delle gru, ci saranno le stampanti 3D che consentono di costruire casette di 40 mq in cemento per soli 10mila euro, con evidenti conseguenze sui mutui. Ma se faranno tutto le macchine, quali lavori sopravvivranno? Quale assetto fiscale dovrà darsi lo Stato: si tasseranno anche le macchine, come suggerito da Bill Gates? Quale Welfare sosterrà la crescente massa di disoccupati e anziani? Una cosa è certa. Resisteranno i lavori che i robot non sanno fare. I robot non sanno che l’acqua è bagnata e che una stringa si tira ma non si spinge. Non hanno ideali, visione e capacità di pensiero. I robot non sanno decidere la strategia di investimento di capitali, scrivere una poesia o un piano industriale. Sopravvivranno i lavori che richiedono talento, carattere, leadership, intuizione, analisi, innovazione ed esperienza. Comincia l’era del capitalismo intellettuale.