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Matteo Renzi e il tardivo carnevale dopo il caso Torrisi

Matteo Renzi, Spread

Molti hanno scambiato all’improvviso, persino nei piani alti della politica, la Quaresima per Carnevale. Ed hanno tentato di trasformare in un caso bellico – come la vicenda dei pozzi Ual Ual sfruttata da Mussolini nel 1934 per la guerra in Abissinia – l’elezione a sorpresa dell’alfaniano Salvatore Torrisi a presidente della commissione del Senato per gli Affari costituzionali.

Si tratta della commissione dove si giocherà uno dei tempi della partita dell’ennesima riforma o riformetta elettorale, senza la quale pare che il presidente della Repubblica non abbia alcuna intenzione di sciogliere le Camere prima della scadenza ordinaria dell’anno prossimo. E ciò, quindi, neppure se l’incidente in cui è incorsa la maggioranza con la curiosa elezione di un esponente della stessa maggioranza alla presidenza della prima commissione di Palazzo Madama provocasse addirittura la crisi, secondo un allarme lanciato da Andrea Orlando. Che per un istante ha forse dimenticato di essere anche il ministro della Giustizia, e non solo, in ordine di voti appena raccolti nei circoli, il secondo candidato alla segreteria del Pd, dopo Matteo Renzi.

È proprio a quest’ultimo che, a torto o a ragione, è stata subito attribuita la tentazione di sfruttare il caso Torrisi, chiamiamolo così, per alzare la temperatura politica facendo protestare i suoi amici, chissà poi perché, presso il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e il capo dello Stato Sergio Mattarella. Come se costoro avessero la possibilità di deporre l’amico del ministro degli Esteri Alfano. Che è invece l’unico a potere svolgere opera di persuasione sull’interessato, come del resto ha già cominciato a fare intimandogli di dimettersi per ragioni di opportunità politica ed annunciandone poi l’espulsione in caso di ulteriori resistenze. E così Alternativa Popolare, che è il nome appena datosi dal partito di Alfano per liberarsi di quell’ormai ingombrante “Nuovo centro Destra” assegnatosi nell’autunno del 2013 per diventare “diversamente berlusconiano”, può farsi già notare in campo con la sua nuova maglietta.

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Eppure si conosceva la problematicità dell’elezione del presidente della prima commissione del Senato per sostituire la piddina Anna Finocchiaro, nominata ministra dei rapporti col Parlamento non qualche giorno fa, in sostituzione di qualche dimissionario o defunto, ma a dicembre scorso, quando nacque in quattro e quattr’otto il governo del conte Gentiloni per soddisfare – diciamo la verità – l’interesse politico d’immagine di Renzi, deciso a dimostrare dopo la batosta referendaria sulla sua riforma costituzionale di sapersi penalizzare in qualche modo, rinunciando a Palazzo Chigi e tenendosi stretta invece la segreteria del partito per non renderla “contendibile”, come reclamavano invece i suoi avversari interni: Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e compagni. I quali sulla contendibilità, appunto, del partito avrebbero poi svolto una battaglia preferendo alla fine perdere con una scissione piuttosto che con una sconfitta congressuale.

Proprio per effetto di quella scissione si è creata una situazione a dir poco equivoca nella prima commissione del Senato, come in molte altre dello stesso Senato e persino della Camera, ma anche nell’aula di Palazzo Madama, dove i numeri sono sempre stati ballerini in questa diciassettesima legislatura, al pari delle precedenti.

I fuoriusciti dal PD, che hanno rovesciato le loro magliette con l’effetto di trasformare la sigla in DP, sono formalmente rimasti nella maggioranza, sostenendo di voler difendere il governo dai tentativi dell’odiatissimo Renzi di rovesciarlo, o indurlo alle dimissioni, per andare alle elezioni anticipate. Ma la partecipazione dei bersaniani, dalemiani ed altri alla maggioranza è nei fatti a giorni e persino ad ore alterne, secondo le convenienze e gli umori. D’altronde, ancor prima della scissione, quando erano la minoranza del Pd, essi avevano minacciosamente avvertito il governo Gentiloni che avrebbe dovuto guadagnarsi il loro consenso provvedimento per provvedimento.

In questa logica di movimento e di comportamento non è parso vero a costoro di poter impallinare il candidato ufficiale del Pd, il renziano Giorgio Pagliari, alla presidenza della prima commissione senatoriale votando con le altre opposizioni per il povero alfaniano, a questo punto, Salvatore Torrisi. A favore del quale va detto che ha sicuramente giocato anche il fatto di essere dichiaratamente e notoriamente favorevole al ritorno al sistema elettorale proporzionale. Ma va anche aggiunto che non è un presidente di commissione, per quanto bravo e astuto possa essere o rivelarsi, a dettare legge.

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D’altronde, la strada al ripristino del sistema elettorale proporzionale è stata non aperta ma spianata dai tagli apportati nella sartoria della Corte Costituzionale alle leggi per i rinnovi del Senato e della Camera, dal pessimo uso che hanno fatto del maggioritario sia la destra sia la sinistra allestendo per più di vent’anni coalizioni di governo a dir poco pasticciate, dai tanti sostenitori apparenti del maggioritario che hanno però contribuito alla bocciatura referendaria della riforma costituzionale, e in fondo dagli stessi renziani che ripropongono ancora il cosiddetto Mattarellum, prevalentemente maggioritario, sapendo bene che la loro è più una mossa che una scelta.

Il ritorno al tanto deprecato sistema elettorale proporzionale fa comodo a tutti quelli che, non sapendo come fermare i grillini, che a volte inseguono anziché contrastare, per cui li aiutano a crescere ancora, contano proprio sulla mancanza o irraggiungibilità del premio di maggioranza, o sulla sua riduzione ad un fatto simbolico, per evitare che il comico di Genova faccia tombola  da solo la prossima volta. E mandi un Di Maio o un Davigo a Palazzo Chigi, magari insieme: il secondo come presidente del Consiglio e il  primo come sottosegretario.

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