Un recente articolo di Francesco Verbaro, ex capo del personale in Funzione Pubblica ed ex Segretario Generale del Ministero del Lavoro, ha posto l’accento su un punto che da troppo tempo osservatori ed analisti trascurano quando si parla della – sempiterna – riforma della pubblica amministrazione: chi vogliamo e per fare cosa?
Sono due i problemi che si intersecano e creano effetti perversi, autoalimentandosi. Da un lato, il progressivo e inarrestabile invecchiamento dei dipendenti (solo il 2,7% dei lavoratori pubblici ha meno di 30 anni), reso ancora più drammatico dal blocco delle assunzioni, tuttora percepito quale dogma assoluto in omaggio ai sacerdoti della spending review, sebbene il totale dei dipendenti della PA Italiana sia in diminuzione da anni e perfettamente in linea coi numeri di Francia, Germania o Regno Unito. Dall’altro, il fatto che storicamente il reclutamento per le pubbliche amministrazioni in Italia ha seguito e segue ancor oggi schemi antiquati. Come ricorda Verbaro, “le competenze del personale sono spesso obsolete, per la mancanza di veri piani di riqualificazione e formazione e per la presenza di una percentuale elevata di dipendenti non laureati o comunque con titoli di studio non adeguati. Nessuno parla oggi dei profili e delle competenze delle risorse umane. Ragioniamo solo su quantità e sui costi. In nessuna azienda moderna si farebbe così”.
Un’analisi spietata che, tuttavia, serve ad evidenziare come l’approccio al tema riforma della PA sia ancora di tipo essenzialmente fordista, un tanto al chilo. Nell’immaginario collettivo del Paese è vivo e scalcia il ritratto fantozziano del lavoratore pubblico, un timbro in mano ed una biro nell’altra, la cui unica occupazione è fare ammuina, far girare le carte. Intendiamoci, c’è ancora molto di vero in questo, anche se firma digitale e pec hanno fatto ormai il loro ingresso nella vita del burocrate. Rimane, tuttavia, un’amministrazione pubblica fordista, nelle teste della politica come in quelle della burocrazia, nella lente prevalentemente contabile amministrativa attraverso la quale vengono processati i problemi.
La costruzione formalista dei profili dei lavoratori pesa in maniera sproporzionata rispetto alle competenze che sono oggi richieste per competere con l’esterno. Non si tratta, per esser chiari, di riproporre il modello aziendalista per le pubbliche amministrazioni, oramai stantio, ma di rendere la PA interlocutore sempre più affidabile e competente per tutti coloro che con la PA devono o vogliono avere a che fare. C’è un mondo che là fuori corre e che è in continua e velocissima evoluzione. Serve uno sforzo di visione per immaginare una macchina pubblica che, pure nell’imprescindibile rispetto delle regole, corra e non rincorra. Ricorda Verbaro che nei prossimi dieci anni andranno in pensione un milione di dipendenti pubblici: quasi un terzo della forza lavoro delle amministrazioni. È un dato che farà felici i sostenitori di uno Stato leggero ma che, in mancanza di un’attenta pianificazione che accompagni i cambiamenti in essere, segnerà l’inevitabile declino della nostra burocrazia. Qualsiasi organizzazione si basa su un elemento indefettibile: il capitale umano.
Se continueremo ad interpretare questa ricchezza solo a peso, senza riflettere su quali linee strategiche investire e, conseguentemente, di quali competenze e di quali profili la PA ha effettivamente bisogno, rischiamo di continuare a perdere posizioni con gli altri Paesi, sia nell’Ue che nel mercato globale. Un epic fail che verrà pagato salato dai cittadini Italiani.