La Camera dei Deputati da ieri sta discutendo della legge sul biotestamento, esito legislativo finale di un dibattito che va avanti ormai da più di un decennio. In giornata dovrebbe arrivare il via libera al testo, che passerà poi al Senato. Nelle parti già approvate è stato introdotto il divieto all’accanimento terapeutico e il diritto del paziente ad abbandonare la terapia, anche nelle cliniche private e cattoliche, sebbene il singolo medico possa però sempre rifiutarsi di “staccare la spina”.
Non credo che sia utile entrare nel merito di una polemica che mi ha visto già impegnato sul fronte della vita e su cui soprattutto qui su Formiche.net ho già scritto invano fiumi di inchiostro.
È maggiormente interessante, invece, sollevare alcune considerazioni sulla materia stessa di cui si discute, vale a dire il significato della vita umana, nella quale il legislatore sta agendo, anche se non so quanto consapevolmente.
Il dilemma è complesso ma cercherò di essere chiaro.
A seconda di come decidiamo di nascere e di morire, e a seconda dei diritti che riconosciamo alla vita di chi viene al mondo e di chi se ne va, viene fuori una diversa definizione etica del valore intrinseco della vita umana. Da quando, ad esempio, si è stabilita legalmente l’interruzione di gravidanza, si è anche deciso che l’esistenza personale è tale solo se concessa dalla libertà che una madre ha di accordare la sopravvivenza di un nascituro durante i primi mesi di gravidanza. Altrimenti non si giustifica perché l’aborto è consentito nelle prime settimane e non dopo. Allo stesso modo, vietare la pena di morte vuol dire che uno Stato ammette che il valore di una vita personale è superiore alle nefandezze e ai crimini di cui una persona può macchiarsi. E così via.
La stessa cosa sta avvenendo in queste ore a proposito del fine vita. Stabilire che una persona non possa essere tenuta in vita artificialmente con un accanimento terapeutico significa affermare che la nostra vita non è garantita dalla capacità tecnica di mantenerla indebitamente in essere con una macchina o con i farmaci. E questa è, infatti, un’accezione positiva del contrasto all’accanimento terapeutico, per le stesse ragioni con cui si può essere contro l’aborto e contro l’eutanasia: vale a dire affermare con forza che la vita umana è una condizione originaria, trascendente, rispetto ad altre volontà e a strumenti artificiali.
Il punto decisivo tuttavia non è questo. Nella legge in approvazione viene non solo negata ogni forma di accanimento, ma viene demandata alla libertà personale del morente la decisione ultima su come, quando e in che misura voler vivere, e voler morire, attraverso la trasmissione pubblica dei propri relativi intendimenti testamentari.
Ed ecco che qui il terreno si fa scivoloso, a ben vedere.
La domanda, infatti, è: che genere di concezione della vita umana è presupposta in questo tipo di legittimazione suprema della volontà individuale?
Sì, perché bisogna stare attenti a che cosa consideriamo “fondamentale” della vita personale quando assicuriamo alla “libertà” un onere decisionale così largo ed assoluto.
In realtà, qui si dice che di reale vi è soltanto la libertà, ossia che una persona è tale solo perché si autodetermina in scelte volute, e tutto il resto, esistenza inclusa, viene subordinato a questo principio unico.
Il punto è che la libertà di cui si accentua in tal modo la portata individualistica non esiste realmente in questa forma in nessun soggetto umano. La legge sposta l’attenzione dalla effettiva realtà della nostra libertà ad un’idea irreale e utopica di indipendenza che non ha nulla a che vedere con quanto la persona vive veramente.
La libertà concreta si sviluppa, infatti, dentro la vita e non al di sopra di essa. Nasce e cresce nel quadro esistenziale di una specie naturale che ha ontologicamente, ossia nel suo essere, la possibilità di conoscere e decidere di sé alcune cose, ma non tutto. Una libertà, cioè, che fa sì parte di una vita, ma che ha tuttavia anche molti aspetti involontari e imponderabili: quando nascere, in che contesto storico, con che sesso, da quali genitori, eccetera. Inoltre della vita fa parte anche la salute e il dolore che non dipendono per nulla da quello che desideriamo e vogliamo, purtroppo, ma da una molteplicità di cause per lo più incalcolabili e inverificabili.
È nel quadro di una determinata realtà involontaria, che ci caratterizza dall’inizio alla fine della nostra esistenza, che noi possiamo personalmente vivere responsabilmente e a pieno la libertà di scelta, dentro la nostra natura e in relazione con gli altri esseri umani che ci stanno affianco. Sicuramente non decidiamo come e quando nascere, e perciò non possiamo decidere come e quando morire. Non abbiamo diritto ad avere tre occhi e le ali, e neanche abbiamo il diritto a non avere un corpo e a non soffrire, sebbene, evidentemente, sia un gran bene alleviare le pene, quando è possibile e fin quando si può.
La delicatezza della nostra situazione esistenziale è, invero, rivelata dal fatto che possiamo anche essere uccisi dalla libertà altrui e possiamo uccidere gli altri con la nostra libertà e possiamo anche decidere tragicamente di suicidarci.
Questi atti sono possibili, appunto, ma non sono eticamente giustificati e giustificabili, sia quando oltraggiano la vita altrui e sia quando sopprimono la condizione stessa che rende possibile il nostro tutto, anche la libertà, con il suicidio.
A ben vedere, insomma, questa legge non è sbagliata perché vieta l’accanimento terapeutico, ma perché assolutizza in modo irrealistico, superficiale ed utopico un’idea falsa di libertà che non produce nulla tranne impoverire l’ontologia dell’umano e rimpicciolire il raggio di valore e mistero dell’esistenza personale, limitandone l’essenza al solo arbitrio di un triste decisionismo solitario.
Domani, dopo l’approvazione di questa legge, non saremo più felici di prima, non avremo eliminato la tragedia del dolore e della malattia: avremo solo reso legge la paura terrificante di vivere, avremo ridotto al minimo il suo significato trascendente, derubricandone il valore unicamente a quanto possiamo controllare, e chiudendo il suo mistero infinito in una finta scatola di attrezzi gestibile a piacimento.
Il biotestamento, in definitiva, non è altro che il risultato radicale di un’ideologia libertaria, relativistica e atterrita dalla morte, propria di una civiltà che opta per non capire il senso ontologico e metafisico della libertà: un materialismo, frutto di una crisi antropologica, che segnala una totale rottura dei nostri legami culturali con l’intera storia dell’umanesimo occidentale.