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Perché il Def rimanda alla clemenza di Bruxelles

debito pubblico, Guido Salerno Aletta, def

Obiettivo centrato. Almeno sulla carta, il Def 2017, appena varato dal governo Gentiloni, si allinea perfettamente alla richieste del Fiscal compact. Già nel 2019 si agguanta un piccolissimo avanzo strutturale del bilancio, pari allo 0,1% del Pil, rispetto a un tendenziale del -0,2%. Il pareggio si mantiene anche nel 2020, rispetto a un tendenziale del -0,4%. A causa della minore crescita e della più bassa inflazione, la riduzione del debito pubblico è meno vistosa. Il Pil, secondo il Def 2016, doveva crescere dell’1,4% nel 2017, dell’1,5% nel 2018 e dell’1,4% nel 2019. Nel nuovo Def si prevede un +1,1% quest’anno, e un +1% netto sia nel 2018 che nel 2019. Il rapporto debito/Pil, all’orizzonte del 2019, anziché essere pari al 123,8%, dovrebbe scendere solo al 128,2%, con una differenza di 4,4 punti.

La correzione sui conti pubblici, che sicuramente non sarà indolore, si evince dal confronto tra le correzioni strutturali previste nel quadro tendenziale, che pure sconta l’aumento dell’Iva e delle accise dall’inizio del 2018, e il nuovo quadro programmatico. Basta fare un passo indietro, per apprezzare la portata delle decisioni che dovranno essere assunte per conseguire gli obiettivi previsti nel Def: nel 2015, la variazione strutturale del bilancio, che misura l’avvicinamento o l’allontanamento dal pareggio strutturale, fu positiva dello 0,3%. Ma nel 2016 fu negativa per lo 0,6%, e quest’anno lo è per lo 0,5%: ciò significa che ci siamo allontanati dall’obiettivo. E infatti, sarà adottata la cosiddetta manovrina, che comporta un miglioramento dello 0,2% già nel 2017. In ragione d’anno, la correzione strutturale vale lo 0,3% del Pil e il suo effetto si trascinerà in avanti negli anni. Per raggiungere il pareggio strutturale nel 2019, sono previste due manovre strutturali, pari allo 0,8% del Pil sia nel 2018 che nel 2019. Il risultato del pareggio sarà raggiunto, ma la strada è ancora tutta in salita, soprattutto se consideriamo come in questi ultimi anni l’abbiamo percorsa quasi sempre in discesa.

A questo punto, il previsto miglioramento del deficit congiunturale è una semplice conseguenza delle correzioni strutturali: il 2017 si chiuderebbe con il -2,1% anziché con il -2,3%; il 2018 arriverebbe al -1,2% anziché al -1,3%; il 2019 traguarderebbe il -0,2% invece che il -0,6%. Infine, nel 2020 si raggiungerebbe anche il pareggio congiunturale, con il deficit pari a zero, mentre nel tendenziale si prevede ancora un deficit dello 0,5%.

Il Def punta a una accelerazione dell’avanzo primario: si inerpica dall’1,7% del pil del 2017 al 2,5% del 2018, per salire ancora nei due anni successivi prima al 3,5% e infine al 3,8% del Pil. In termini nominali, è come se quest’anno, anziché trattenere 29 miliardi di euro (1,7% del Pil) per pagare gli interessi sul debito, che ammontano quest’anno a 68 miliardi (3,9% del Pil), si trattenessero ben 65 miliardi (3,8% del Pil) per coprire l’intero l’onere per interessi. Questo onere, infatti, nel 2020 dovrebbe ammontare al 3,8% del Pil.

C’è da chiedersi se sia sostenibile questa misura dal punto di vista degli effetti recessivi, visto che l’avanzo primario del 2015 è stato in realtà solo dell’1,5%, così come quello del 2016. Obiettivi molto ambiziosi sono stati sempre ridimensionati: il governo Monti, ad esempio, nel Def 2012 aveva puntato a un avanzo primario del 5,7% del pil nel 2015. Divenne 4,8% nel settembre 2012; poi 4,3% nel Def 2013 e 3,7% nel settembre 2013; ancora, 3,3% nel Def 2014 e 1,6% nel settembre 2014. Percentuali di risparmio primario assai elevate in Italia ci furono solo tra il 1995 e il 2000, in un clima di enorme slancio dell’export dovuto alla svalutazione e di inflazione elevata molto diverso dall’attuale.

Le nuove misure strutturali da impostare nel 2018 rimangono coperte: “L’intendimento del governo nell’impostazione della futura Legge di bilancio è di disattivare le clausole poste a garanzia dei saldi di finanza pubblica da precedenti provvedimenti normativi. L’obiettivo di un indebitamento netto pari all’1,2 per cento del Pil nel 2018 sarà garantito con un pacchetto aggiuntivo, da definirsi nei prossimi mesi”. Forse a Bruxelles si sono resi conto che è ora di evitare strappi pericolosi: “Qualora a livello europeo intervenissero cambiamenti nel braccio preventivo del Psc in senso più orientato alla crescita e allo sviluppo, ciò potrebbe ridurre le correzioni fiscali richieste all’Italia per i prossimi anni”.

Negli anni passati, il risanamento si affidava alla previsione di una forte crescita futura. Ora ci sono solo pesanti sacrifici, di cui nulla si sa. Forse Bruxelles allenta la presa. Accontentiamoci: ogni giorno ha la sua pena.



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