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Ecco la vera posta in gioco al referendum costituzionale in Turchia

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L’unica certezza, per il momento, è che di certo non c’è niente. La Turchia domenica andrà a votare un referendum fondamentale per il proprio futuro e l’unica cosa che sa è che, indipendentemente dal risultato, il Paese del giorno dopo sarà un Paese spaccato. Spaccato soprattutto su un argomento, che poi tiene banco irrimediabilmente da 15 anni a questa parte: Recep Tayyip Erdogan.

Il popolo della Mezzaluna che esce da un 2016 fatto di terrorismo di più matrici e di un tentato golpe e d 15 anni di crescita ed esaltazione, ma anche di passioni e tensioni, dovrà decidere su argomenti decisamente non da poco.

Se passa il sì, il presidente potrà praticamente fare quello che vuole, in primis scegliere i ministri, cambiarli o revocarne il mandato, senza che il parlamento possa opporsi. A sua totale discrezione potrà decidere la dichiarazione o il prolungamento dello stato di emergenza: su questa decisione nemmeno I ministro avranno alcuna voce in capitolo. La figura del primo ministro sparirà, così pure le interrogazioni parlamentari.

Al presidente della Repubblica spetterà anche la nomina dei dirigenti delle maggiori istituzioni pubbliche. La magistratura vedrà ridotta la sua indipendenza. Le riunioni dell’Hsyk, il Csm turco, verranno presenziate dal ministro della Giustizia, mentre tre dei suoi membri saranno nominati dal Capo dello Stato.

Il popolo turco, insomma, deve decidere se consegnare il Paese chiavi in mano a chi gli ha garantito crescita economica, visibilità (poco utile) sulla ribalta internazionale, ma anche un’esposizione al terrorismo internazionale senza precedenti e, soprattutto, una involuzione democratica che preoccupa molti, dentro e fuori il Paese.

Il presidente Erdogan è stato fin troppo chiaro. Chi vota no alla sua riforma sta con i terroristi, con l’Europa, con l’Occidente con tutto ciò che vuole indebolire la Turchia. Un delirio elettorale da cui non si è salvato pressoché nulla, nemmeno il Profeta Maometto, a cui il Capo di Stato si è paragonato per descrivere il suo stato d’animo nella notte del fallito golpe dello scorso 15 luglio.
Il fronte del No ha lottato fino all’ultimo, pur con tutte le limitazioni imposte dallo stato di emergenza e da una campagna ampiamente sproporzionata, dove i quotidiani di opposizione sono rimasti in 4 per un totale di meno di 50mila copie vendute su una popolazione di 80 milioni e dove alcuni canali televisivi parlano come se il referendum fosse già stato vinto.

Si è parlato di un voto più che sulla riforma costituzionale su Recep Tayyip Erdogan e questo è senza dubbio vero, per il semplice motivo che il presidente negli ultimi 15 anni ha legato in modo pressoché indissolubile a sé I destini del Paese.

In realtà però è anche un voto su quello che la Turchia deciderà di essere nei prossimi decenni. Se vorrà salvare il salvabile, detto in modo forse non delicato, ma certamente chiaro. Quasi due decenni di cura Erdogan hanno sdoganato frange della società zittite per anni, che hanno conquistato un ruolo sulla scena politica al quale non intendono rinunciare. A questo va aggiunto l’inevitabile impatto che la crisi siriana e tre milioni di rifugiati avranno sul Paese anche dal punto di vista demografico. Una prospettiva che mediamente spaventa il popolo turco, così legato ai suoi connotati e alle sue tradizioni. Erdogan, che pure è la causa di questo disastro, lo sa fin troppo bene e anche per questo ha puntato molto sull’identità nazionale, fortemente connotata dal punto di vista religioso, anche in chiave anti curda.

La minoranza rischia di essere la più svantaggiata dal risultato delle urne. E stiamo parlando potenzialmente di 20 milioni di persone.
In un Mediterraneo sempre più complesso e destabilizzato l’ultima cosa della quale c’era bisogno era una Turchia sul punto di degenerare. Ma qualcuno, la Ue, gli Usa o chi per loro, avrebbe dovuto pensarci anni prima. Perché di Erdogan si parla dal 2002 e almeno dal 2009 quello a cui ambiva era chiarissimo.


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