Pubblichiamo l’analisi uscita sul numero di aprile della rivista Formiche
In occasione del G7 Energia, è utile mettere le carte in tavola su quel che le maggiori potenze intendono fare per rispettare gli impegni solennemente sottoscritti nell’Accordo di Parigi del dicembre 2015. Da allora niente di sostanziale è accaduto. Le cose non stanno andando come sperato e promesso, con la politica che tarda ad adottare le misure necessarie e nell’impossibilità di far affidamento su dinamiche dei mercati che con una depressione dei prezzi di non breve durata rende più complessa e costosa la transizione energetica verso il dopo-fossili.
L’inazione dei governi osta contro il carattere di urgenza – “Action now” campeggiava sulla Torre Eiffel – con cui si dovrebbe intervenire: riducendo la possibilità di rallentare le emissioni inquinanti; accrescendo nelle popolazioni lo scetticismo sulla veridicità dei cambiamenti climatici; aggravando i costi diretti delle politiche di mitigazione – e quelli ambientali che si potrebbero evitare – che aumentano in modo non lineare quando l’azione viene ritardata. Alla prova dei fatti business as usual sembra essere l’attitudine generale.
Il bilancio in Europa non può dirsi positivo per il prevalere nelle angustie dei governi e di Bruxelles di altre emergenze (immigrati, terrorismo, Brexit, crescita, banche) e per il ciclo elettorale che rende i governi restii a introdurre misure che inevitabilmente inciderebbero su famiglie e imprese. Parigi, checché si dica, non è un pasto gratis. Nei fatti nessuna nuova decisione è stata adottata, mentre le cose non muovono nella direzione attesa, come dimostra il crollo degli investimenti nelle rinnovabili, le difficoltà in cui si dibattono le imprese elettriche e, non ultimo, la ripresa dei consumi di energia dopo un decennio di riduzioni a motivo della pur lenta ripresa dell’economia e dei bassi prezzi.
Ancor più magro il bilancio nell’altra sponda dell’Atlantico con la bocciatura da parte del Congresso dei provvedimenti con cui Obama intendeva dar seguito agli impegni assunti, mentre il futuro rischia di essere ancor peggiore se la nuova amministrazione proseguirà nello smantellamento della pur tenue regolazione ambientale. Se così sarà, l’America non potrà rispettare il 70% degli obblighi assunti a Parigi. Morale: sul futuro dell’energia, responsabile di oltre i due terzi delle emissioni clima-alteranti, vi è una totale incertezza, quel che rende ancor più impossibile la traiettoria verso la soglia (almeno) dei 2°C di aumento della temperatura condivisa a Parigi. Per una principale ragione: perché rende altamente rischiosi gli immani investimenti incrementali – valutati sino a 100 miliardi di dollari – che sarebbero necessari alla bisogna. Un’incertezza sintetizzabile in un interrogativo: se si debba credere agli scenari, per quel che valgono, formulati dall’Agenzia di Parigi – controllata dagli Stati industrializzati membri dell’Ocse – che proiettano al 2040 una posizione ancora dominante delle fonti fossili nei bilanci energetici mondiali (74% vs 6% nuove rinnovabili) ovvero credere agli impegni degli stessi Stati di decarboinizzare i loro sistemi energetici estromettendo le fonti fossili.
Un interrogativo da cui dipendono le future sorti del pianeta, ma anche i destini dell’intera industria energetica mondiale. Si è stimato, infatti, che politiche climatiche aggressive comporterebbero l’affondamento dell’85% delle riserve di carbone, il 50% di quelle di metano, il 35% di quelle di petrolio, in larga parte localizzate in Paesi poveri, per un montante di 650 miliardi di tonnellate equivalenti petrolio, stimabili in un valore pari a 100mila miliardi dollari. Di fronte a questa non escludibile prospettiva l’industria fossile si trova schiacciata nella morsa tra bassi prezzi attuali e future politiche climatiche col rischio che riducano gli investimenti creando le premesse per nuovi forti squilibri dei mercati. Dal che la conclusione che la transizione energetica non possa restare un qualcosa di indefinito di cui solo ex-post si possano valutare gli esiti, ma che vada governata onde evitare che le tecnologie tradizionali si riducano in tempi e modi non coerenti con l’avanzare delle nuove tecnologie che le dovrebbero soppiantare.
Il G7 è l’occasione perché gli Stati chiariscano quel che intendono fare onde evitare che l’attuale grande abbondanza di offerta di energia – la maggior garanzia per la sicurezza energetica ed economicità – non abbia a capovolgersi in nuove scarsità a danno di chi più ne abbisogna: i Paesi poveri. Impedendo, in tal modo, quella lotta alla povertà energetica che è non meno necessaria e urgente di quella ai cambiamenti climatici.