Quella di trentanove anni fa è stata l’ultima Pasqua trascorsa da Aldo Moro tra i suoi familiari.
Il Presidente della Dc era nella sua casa di Torrita Tiberina, un piccolo comune in provincia di Roma che sovrasta il Tevere.
Di quel giorno Agnese Moro, una delle figlie, ricorda un fatto insolito: “Ci dice: ’Ho deciso che mi devo comprare la tomba’. Proteste da parte nostra, risatine. ‘Non è urgente; c’è tempo; ma che argomento di conversazione;ma ti pare!’. Lui, però, insiste. È deciso. Sembra che la ritenga una cosa urgente. Non capiamo perché insista tanto e perché c’è ne parli”.
Ma in quei giorni c’è un altro fatto inusuale.
Proprio alla vigilia delle festività pasquali del 1977, Aldo Moro scrive un articolo per “Il Giorno”, il quotidiano milanese per cui collaborava da anni, che non ha un contenuto strettamente politico, ma è caratterizzato da una scrittura intrisa di religiosità, simile a quella che caratterizzava i suoi “pezzi” ad “Azione Fucina” e “Studium”, quand’era un giovane studente universitario e, poi, un neolaureato. Dalle colonne del giornale succitato approfondisce l’annuncio cristiano della salvezza e la possibile prospettiva di liberazione politica dell’umanità. L’articolo, intitolato ”Di fronte alla crisi politica e morale. Agire uniti nella diversità”, viene pubblicato il 10 aprile.
“La Pasqua-scrive Moro- evoca la redenzione dell’uomo, che è in fondo la meta di ogni sforzo morale e di ogni impegno politico. Se la redenzione è l’affermazione di un valore fuori discussione e perciò, in sè perfetta e compiuta, molti disegni di vita individuale e sociale sono invece in via di faticosa attuazione ed incontrano difficoltà gravi e talvolta insuperabili. ma il principio resta, illuminante e stimolante. Il significato di questa giornata è nel riscontrare che, in modo mirabile e misterioso,vi sono oggi, vi sono ora tutte le condizioni, perché l’uomo sia salvo, salvo per tutta intera l’estensione dell’esperienza umana. È un giorno di gioia, perché la salvezza è alla nostra portata. Ma è un giorno di preoccupazione, di critica, di ripensamento nel raffronto tra l’enorme possibilità offerta ed il ritardo, la limitatezza, la precarietà della pace, il quale contrassegna la pienezza della vita, e la realtà delle divisioni che separano l’uomo dall’uomo e lacerano il mondo.La storia sarebbe estremamente deludente è scoraggiante, se non fosse riscattata dall’annuncio, sempre presente, della salvezza è della speranza. E non parlo naturalmente solo di salvezza è di speranza religiose. Parlo, più in generale, di salvezza è speranze umane che si dischiudono a tutti coloro che hanno buona volontà”.
Lo statista democristiano dall’aspetto religioso della festività pasquale arriva a delineare lo sfondo politico della stessa. “L’esperienza politica -sottolinea Moro- come esigenza di realizzare la giustizia nell’ordine sociale, di superare la tentazione del particolare per attingere valori universali, è coinvolta dunque nello sforzo di fare, mediante il consenso e la legge, l’uomo più uomo e la società più giusta. Il che vuol dire perseguire, con gradualità e limiti certo inevitabili,la salvezza annunciata, ad un tempo luminosamente certa e paurosamente lontana”. Il presidente della Dc invita chi lo legge a compiere la parte che spetta ad ognuno:
“Possiamo tutti insieme, dobbiamo tutti sperare, provare, soffrire, creare, per rendere reale, al limite delle possibilità, sul piano personale, come su quello sociale, due piani appunto che si collegano ed influenzano profondamente, un destino irrinunciabile che segna il riscatto dalla meschinità e dall’egoismo. In questo muovere tutti verso una vita più alta, c’è naturalmente spazio per la diversità, il contrasto,perfino la tensione. Eppure, anche se talvolta profondamente divisi, anche ponendoci, se necessario, come avversari, sappiamo di avere in comune, ciascuno per la propria strada, la possibilità e il dovere di andare più lontano e più alto. La diversità che c’è tra noi non ci impedisce di sentirci partecipi di una grande conquista umana. Non è importante che pensiamo le stesse cose, che immaginiamo e speriamo lo stesso identico destino; e’ invece straordinariamente importante che, ferma la fede di ciascuno nel proprio originale contributo per la salvezza dell’uomo e del mondo,tutti abbiano il proprio libero respiro, tutti il proprio spazio intangibile nel quale vivere la propria esperienza di rinnovamento e di verità, tutti collegati l’uno all’altro nella comune accettazione di essenziali ragioni di libertà, di rispetto e di dialogo”.
Solo un anno dopo lo scenario in cui si trova Moro è tragicamente mutato.
Si trova prigioniero delle Brigate Rosse nell’appartamento romano di via Montalcini, mentre proprio durante le festività pasquali le forze dell’ordine,coordinate dal sostituto procuratore Luciano Infelisi, lo stanno cercando in forze lungo l’intero litorale romano, fino a Terracina, dove lo statista ha un paio d’appartamenti in un piccolo caseggiato con vista sul Circeo. Moro e’ stato nella città tirrenica solo alcuni giorni prima di essere rapito in via Fani, il 16 marzo del 1978: ha accompagnato il nipote Luca, figlio della primogenita Maria Fida, a vedere il mare.
Il 7 aprile seguente sempre il quotidiano “Il Giorno” pubblica una lettera della moglie Eleonora in cui fa sapere al prigioniero “che tutti i componenti della famiglia sono uniti e in salute”, ma che non hanno “alcun segno che conforti la nostra speranza del suo ritorno”. Nella missiva c’è tutto l’amore per Aldo: “Vorremmo che sapesse che gli siamo vicini” insieme alla speranza “dopo tanto dolore, di riabbracciarlo, avendo, nonostante tutto, fiducia negli uomini”.
Moro legge quel messaggio e riesce a rispondere alla consorte con una lettera scritta tra il 27 e il 30 aprile come ha accertato Leonardo Sciascia nella relazione di minoranza dell’apposita commissione d’inchiesta parlamentare. “Mia carissima Noretta- scrive- anche se il contenuto della tua lettera al ‘Giorno’ non recasse motivi di speranza (nè io pensavo che li avrebbe recati) essa mi ha fatto un bene immenso, dandomi conferma nel mio dolore di un amore che resta fermo in tutti voi e mi accompagna e mi accompagnerà per il mio Calvario. A tutti dunque il ringraziamento più vivo, il bacio più sentito, l’amore più grande”.
Nell’ultima settimana di vita Moro scrisse venticinque lettere di cui solo due furono consegnate alla moglie il 5 maggio del 1978. In una delle lettere mai arrivate e scoperte anni dopo c’è un riferimento a quella pubblicata sul quotidiano milanese: “Di voi- annota Moro- ho ricevuto la sola lettera del ‘Giorno’ che volevo portare sul petto, così per farmi compagnia, all’atto di morire. Ma si è perduta nel pulire la prigione. Per quanto abbia chiesto, non ho saputo altro. Quasi pensavo di aver fatto qualcosa di vergognoso. Ma è il meccanismo, deve essere cosi'”.
E quell’inesorabile meccanismo girerà fino al 9 di maggio,quando Aldo Moro verrà assassinato dai brigatisti. Nella sua ultima notte da uomo libero, tra il 15 e 16 marzo, Moro venne trovato, all’una di notte, dal figlio Giovanni, immerso nella lettura di uno dei grandi testi della teologia del Novecento: “Il Dio crocefisso” del protestante Jurgen Moltmann. Per lui i giorni del Calvario stavano per iniziare.