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La politica, il populismo e i rapporti di debolezze

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Caro direttore, la parola populismo è tanto di moda da provocarmi un fastidio estremo, ma mi chiedo cosa abbia di sbagliato nel suo significato tecnico, diciamo così. Se definisce l’atteggiamento di generica ostilità alle rappresentanze politiche, motivato dalla pregiudiziale convinzione della loro incapacità e disonestà, identifica semplicemente un dato oggettivo.

La qualità dell’attuale esecutivo, per esempio, è scarsa. La compagine governativa guidata da Gentiloni si compone di ministri che avrebbero dovuto dimettersi dopo le gaffe, definiamole così, che ne hanno compromesso la credibilità.

Quella dei partiti d’altronde non è certo maggiore: il M5S, alle prese con la guida del Campidoglio e con continue risse intestine, palesa la sua clamorosa inadeguatezza a guidare il Paese; per fortuna dei grillini le aree politico-partitiche gravitanti attorno a Forza Italia e Pd, oltre a trascinare oltre misura i loro problemi di leadership, alternano esauste schermaglie verbali a ben più sostanziali scambi di favori (vedi le vicende MinzoliniLotti). La ciliegina su questa torta indigesta è stata la bocciatura della proposta dei 5 Stelle sui cosiddetti vitalizi. Il pregiudizio che i detentori del potere perseguano solo minuscoli e molto materiali tornaconti personali non è solo frutto di una percezione amplificata dalla demagogia corrente, è anche una realtà fattuale.

Chi siede in Parlamento non ha il pudore o la furbizia di evitare errori appariscenti come l’aula vuota che ha seguito l’attesissimo dibattito sul fine vita dopo la morte di dj Fabo, né più nascosti ma più gravi come il mancato sblocco della legge sulla pedofilia per il quale, assurdamente, è ancora necessaria la querela di parte per combattere questo abominevole reato.

I politici lavorano poco e male, pensano soprattutto ai loro privilegi. Dirlo è banale, ma non per questo meno vero. E la soluzione non sta solo e tanto nell’etica individuale di chi fa politica – la richiesta di moralizzazione spesso porta a derive devastanti – ma nella capacità “crociana” di coniugare interesse privato e pubblico, di far coincidere il vantaggio del Paese con il proprio (ineliminabile nell’esercizio del potere: gli anarchici dicevano giustamente che non ci sono poteri buoni). E poi, come sosteneva Platone e confermano un’infinità di casi – dal francese Fillon (a smentire che le metastasi colpiscano solo l’Italia) a Renzi, De Luca, Boschi, Di Battista, Bossi – i politici non dovrebbero avere famiglia.

Né padri, né figli, né coniugi, né fratelli: fino al quarto grado, come si fa o si dovrebbe fare all’Università (dove le parentopoli abbondano). Oppure, avendone, se ne dovrebbero far carico al di là delle vicende giudiziarie, accettando il rischio di lasciare il posto anche quando non hanno responsabilità personali accertate.

I populisti, in sintesi, dicono cose sacrosante. Il loro punto debole è che fingono (non lo si può pensare seriamente) che riguardino solo le élite, i leader, i capi, la casta: che il resto del corpo sia sano, che la gente sia vittima del sistema quando invece è complice per mancato controllo, omessa denuncia, ignavia e – spesso – cointeressenza. La truffa è sostenere che si possa eliminare la rappresentanza (la tesi di Michel Houellebecq) e che sia questa la cura.

È dire che si cacceranno i “furbetti del cartellino” ogni qualvolta scoppia uno scandalo, per esempio: quasi nessun dirigente pubblico si azzarda a mandare via un dipendente fedifrago e disonesto, magari dietro prove lampanti ma davanti al rischio di essere poi costretto a risarcirlo da qualche originale magistrato.

Qualche recente segnale in senso contrario c’è stato, ma da qui ad annunciare il trionfo dell’onestà ce ne passa: il consenso sociale attorno a questi sciagurati è altissimo, vedi i medici assenteisti di Napoli, e le difficoltà delle indagini enormi, come dimostra il famigerato episodio dei vigili assenteisti del Capodanno romano 2014. I dipendenti pubblici sono 1.300.000: una vera “lobby di massa”, per usare un ossimoro.

Come tra i partiti di maggioranza e opposizione, come tra governo e Parlamento, anche tra elettori ed eletti c’è un rapporto di debolezze e non di forze. Una gara al ribasso continuo.


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