I sondaggi in vista delle primarie Pd del prossimo 30 aprile continuano a premiarlo in modo netto, l’ultimo di Index Research lo accredita del 62% dei consensi contro il 28% di Andrea Orlando e l’11 di Michele Emiliano. Eppure per Matteo Renzi la questione del controllo del partito e del rapporto con molti esponenti anche di punta dei territori continua a porsi in modo problematico. L’ex presidente del Consiglio ha macinato voti nei circoli – e probabilmente lo farà anche ai gazebo – ma a livello locale le gatte da pelare non gli mancano di certo. A cominciare dal mancato endorsement in suo favore da parte di chi, fino a qualche mese, era definito e considerato abbastanza unanimemente un renziano convinto.
LA FREDDEZZA DI SALA
E’ il caso di Beppe Sala, negli anni del governo dell’ex sindaco di Firenze uno dei campioni del renzismo: prima come commissario straordinario di Expo 2015 e poi – alle scorse amministrative – da candidato vincente al Comune di Milano, il principale capoluogo di regione conquistato dal Pd a fronte delle pesanti sconfitte di Roma, Napoli e Torino. Tutti si sarebbero aspettati che Sala si schierasse senza se e senza ma al fianco di Renzi nella corsa delle primarie, ma invece non è stato così. Il primo cittadino di Milano, infatti, non ha ancora annunciato al fianco di chi si schiererà. “Andrò a votare ma fino alla fine non dirà per chi“, ha confermato anche due giorni fa. Una freddezza inaspettata – che, ovviamente, sta facendo storcere il naso all’ex presidente del Consiglio e ai suoi più stretti collaboratori – a cui bisogna aggiungere il silenzio di altri esponenti della sua giunta, compreso il suo assessore al Bilancio Roberto Tasca. E dire che Renzi si presenta anche in ticket con Maurizio Martina, in prima fila nella campagna elettorale della scorsa primavera nel sostenere Sala, con cui ha stretto ottimi rapporti fin dai tempi di Expo. Il ministro dell’Agricoltura oggi viene descritto come l’uomo delle trattative e del dialogo tra Roma e Milano: un lavoro che si sta dimostrando tutt’altro che facile come conferma anche la mancata partecipazione di Sala alla tre giorni renziana del Lingotto. E pure la lettera che a inizio marzo il sindaco di Milano ha inviato insieme a Sergio Chiamparino a Repubblica nella quale i due invitavano Renzi ad accettare “l’idea di un cambio di passo, di un cambiamento nella qualità della sua leadership politica” e a “non rinchiudersi in gruppi ristretti ma avere la disponibilità a veleggiare in mare aperto con nuovi equipaggi non necessariamente composti da persone di stretta osservanza del capitano“. Una distanza che appare confermata anche dal commento di Sala al proposito del referendum consultivo sull’autonomia della Lombardia, promosso da Roberto Maroni e in programma il 22 ottobre: “Consiglierò di votare sì”, ha dichiarato il primo cittadino di Milano che ha comunque detto di preferire “un tavolo di discussione” sul tema in modo da evitare “i costi di un referendum“.
DIVERSAMENTE RENZIANO
Una posizione molto più attendista di quella del governatore del Piemonte che, già al Lingotto dello scorso marzo, ha confermato di sentirsi pienamente un renziano. Chiamparino, però, ha pur sempre scritto una lettera di consigli – ma forse anche di rimproveri – a Renzi, per indole non così incline a ricevere suggerimenti soprattutto in pubblico. E poi – anche nel ribadire la sua fiducia nei confronti dell’ex premier – non ha mancato spesso di sottolinearne pure i limiti. “Il Pd è identificato, nel bene o nel male, in Matteo Renzi e questo è un elemento di grande forza per l’identità del partito, ma può essere una grande debolezza se prevale l’autoreferenzialità” – ha commentato un paio di mesi fa – “come è successo nella fase del referendum, dove è prevalsa l’autoreferenzialità piuttosto che la volontà di costruire un’egemonia politica“. Diversamente o, forse, non completamente renziano.
LA MOSSA DI ZINGARETTI
Chi non può essere certo considerato un alleato interno di Renzi è il governatore del Lazio Nicola Zingaretti. Alle primarie ha scelto fin da subito di schierarsi con Orlando: così incisivamente al suo fianco da contribuire in modo diretto all’organizzazione della campagna elettorale del Guardasigilli, vicino al quale negli ultimi tempi è stato visto in numerosissime occasioni. Lo stesso Zingaretti che la scorsa settimana ha annunciato la sua ricandidatura alla Regione Lazio, tra gli applausi di buona parte del Pd e i rumorosi silenzi di Renzi e dei suoi, i quali sembra avessero altri progetti in proposito (l’idea di lanciare Beatrice Lorenzin oppure qualche renziano doc come la deputata Lorenza Bonaccorsi). Niente da fare però. Il presidente uscente ha battuto tutti sul tempo e ha riproposto la sua candidatura con un anno di anticipo rispetto alla scadenza del suo attuale mandato. In moltissimi – compresi i renziani-non renziani Dario Franceschini e Luigi Zanda – hanno applaudito alla decisione di Zingaretti, ma non l’ex premier e nemmeno il commissario romano Matteo Orfini, che se ne sono rimasti in religioso silenzio.
PATTI & SPINE
Differenti – ma in fondo, comunque, rappresentativi dei problemi di Renzi sul territorio – sono altri tre casi. Il primo è quello campano: dopo la grande freddezza del post-referendum, il governatore Vincenzo De Luca ha deciso di schierarsi ancora a sostegno di Renzi ma – dicono i ben informati – solo dopo aver stretto con lui un nuovo patto. “Lotti ha già chiuso l’accordo con il governatore campano De Luca il cui figlio Piero è già da oggi, virtualmente, il primo deputato Pd della prossima legislatura“, ha scritto il Corriere della Sera. Lo stesso De Luca che ieri ha organizzato un incontro a sostegno di Renzi cui ha partecipato anche il ministro degli Interni Marco Minniti. Il secondo è il caso della Puglia dove – com’è ovvio che sia – domina Emiliano, arrivato primo, seppur di poco, nei voti dei circoli, a ulteriore dimostrazione della difficoltà dell’ex premier di crearsi una sua valida classe dirigente locale. Il terzo, ancora diverso, è rappresentato dalla Toscana: Renzi ha stravinto il congresso, ma nel frattempo ha perso un presidente di Regione. Si tratta di Enrico Rossi che – dopo aver sostenuto le ragioni del Sì al referendum dello scorso dicembre – ha preso armi e bagagli e ha fondato il nuovo partito Articolo 1.