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Gianfranco Sabbatini, la scomparsa di un galantuomo

Sabbatini

Nel pomeriggio del 27 febbraio mi trovavo nel Salone Pedrotti del Conservatorio Rossini, a Pesaro, per i preparativi della inaugurazione dell’anno accademico che avrebbe avuto luogo il giorno successivo alla presenza della ministra Valeria Fedeli. Fui raggiunto da una telefonata che inizialmente ritenevo scherzosa ma che poi si rivelò ben veritiera. Era Ciriaco De Mita, con il quale peraltro non ho grande frequentazione, che, da un lato, mi sollecitava qualche iniziativa anche a Pesaro “perché si deve sapere quello che abbiamo fatto e come lo abbiamo fatto. Senza polemiche – aggiungeva – ma in omaggio alla verità”. E, dall’altro, mi chiedeva notizie del “deputato pesarese”, di Gianfranco Sabbatini, di cui ricordava “il garbo, la preparazione e l’impegno parlamentare”. Riferii il tutto alla moglie Giancarla, nella impossibilità di raggiungere l’onorevole, titolo del quale egli non ha mai fatto sfoggio. Qualche giorno dopo, con respiro affaticato, mi telefonò lui stesso, ben lieto di questo ricordo, per chiedermi il telefono di De Mita e ringraziarlo. Penso sia stato il suo ultimo contatto con il “mondo” democristiano.

Sabbatini ci lascia dopo la scomparsa, non molto tempo addietro, di Giovanni Venturi. Erano la coppia autorevole che per decenni ha rappresentato e guidato la migliore Democrazia Cristiana pesarese. L’impegno parlamentare per tre legislature di Sabbatini, vice presidente della commissione giustizia della Camera, è evidenziato dai 133 interventi da lui pronunciati e dai 182 progetti di legge sottoscritti. Mancò per un soffio l’incarico di sottosegretario alla giustizia, che avrebbe ben meritato (ma questa è la politica).

Sinteticamente di lui non posso che ripetere quanto già dissi in occasione della commemorazione a Frontino del sindaco Antonio Mariani: il tempo, e con esso l’esperienza, fanno capire che competenze e capacità diversamente caratterizzate, ma complementari, avrebbero potuto e dovuto trovare comuni tragitti collaborativi con più consistente profitto politico generale e con ben maggiori opportunità per legittime aspirazioni personali. Senza adeguato coordinamento e in assenza di armonizzante regia, le intemperanze e le esuberanze della inesperienza ebbero largo spazio nelle dialettiche interne democristiane con il risultato che la “vittoria” spesso consisteva nell’impedire la vittoria altrui.

Quando si è giovani il carro della politica è velocemente trainato da due cavalli: la razionalità ma soprattutto la forte ricerca di spazi. Spesso il secondo prevale sul primo, togliendo simmetria al percorso. Ed è un peccato anche perché Sabbatini non tentò mai di egemonizzare il partito, pur resistendo con intelligenza e tenacia ad ogni tentativo di emarginazione. Non ha mai cercato particolari esposizioni mediatiche ed era portato al dialogo e alla collaborazione con una visione disincantata delle vicende umane su cui non mancava spesso di infiltrare la sua fine e intelligente ironia.

Per decenni ha sostenuto, in silenzio, persone in difficoltà accanto al grande amico Don Gaudiano. Un rapporto risalente al 1947, quando entrambi appartenevano all’Azione cattolica. Ho conosciuto anch’io Don Gaudiano e l’ho frequentato. Era medico, prima di diventare sacerdote. Dedito ad aiutare gli ultimi. Non pensava certo alla carriera ecclesiastica, pur disponendo di un bagaglio intellettuale che poteva portarlo lontano. Poco complimentoso, talvolta un po’ brusco, ma interamente dedito a interpretare il messaggio evangelico nella sua radice, e quindi a innovare, dati i tempi.

E il giornalista Giovanni Lani riassunse in una lunga intervista a Sabbatini le esperienze del dopo-Concilio che coinvolsero intensamente le due personalità, assai vicine anche in questo percorso. Non che prima si sbagliasse, come giustamente rimarcava il deputato con il giornalista. C’erano “santi” in abbondanza anche antecedentemente al Concilio. Però la “Chiesa struttura” era molto impegnata, nel contesto internazionale ed ideologico dello stalinismo, a lottare per sopravvivere. E, operando sulla Terra, era presa – nella sua strategia di salvezza – da comportamenti e metodologie “terrene”. E poi non va trascurata l’influenza delle prassi ereditate dal potere temporale, anche questo sempre rivendicato in funzione difensiva fin dai tempi dei contrasti con l’imperatore che talvolta voleva asservirla.

Poi il quadro si allentò e ci furono coloro, come Giovanni XXIII (non era “prete di strada” ma uomo di apparato, diplomatico: per anni in Bulgaria, Turchia, Grecia, Francia), che compresero che ci si poteva e doveva dedicare con maggiore slancio al messaggio evangelico. Sono stato amico di padre Balducci e ricordo bene come i “giorni nuovi” non venivano vissuti con lo sguardo sereno della “naturale transizione”, ma con forte polemica con la Chiesa “ingessata”, con cardinali e vescovi visti più come “principi” che come pastori. Ma se sei “nel mezzo”, non puoi avere la visione dall’alto, panoramica e realistica. Questo per dire che ogni fase ha le sue caratteristiche e le sue “necessità” (“Opera Christi non deficiunt, sed proficiunt” – le opere di Cristo non vanno indietro, ma progrediscono – dice San Bonaventura nella lettera De tribus quaestionibus, come ci ricorda Benedetto XVI, secondo il quale “l’unicità di Cristo garantisce anche novità e rinnovamento in tutti i periodi della storia”). È la qualità dei tempi (vedi le innovazioni di Francesco) che scandisce i cambiamenti. Comunque nella continuità, sempre rivendicata dalla Chiesa cattolica.

Grande lettore, come è stato ricordato, sia a Pesaro sia a Roma nel tempo libero per Sabbatini i luoghi preferiti erano le librerie. Non era molto portato a “sgambettare” tra le colline della periferia da una sezione di partito all’altra. E questo gli veniva rimproverato. Ma poi la vita insegna che, per la propria gente, rispetto a qualche “visita pastorale”, può essere più utile un’ora spesa bene a Roma. Certo, la politica lo ha assorbito ma per lui non era tutto. Ricordo che un mattino, andando ad Ancona dove egli ricopriva la carica di segretario regionale della Dc, e dove ci attendeva un rilevante incontro, si parlava sì di politica ma giunti in prossimità del capoluogo, alla vista del mare splendente di maggio, dall’alto delle colline, mi disse: “Pensa cos’avranno provato millenni fa i greci, approdando da queste parti e vedendo questo spettacolo”. In uno spirito del genere non poteva trovare spazio la faziosità.

E infatti nell’esercizio delle sue funzioni di presidente della Cassa di Risparmio e poi della Fondazione sostenne in modo sostanzioso, fin dall’inizio, il premio letterario Frontino-Montefeltro promosso e animato da quell’infaticabile personaggio che era Antonio Mariani, inventore di tutto per sostenere il suo paese e l’entroterra: non gli fece mai velo il fatto che Mariani fosse l’uomo di punta dei cosiddetti “girelliani”, gruppo in accesa dialettica con “l’area Sabbatini.” E in questo contesto un riconoscimento personale glielo debbo anch’io. Quando venni nominato presidente del Conservatorio Rossini la voce di bilancio “altre entrate” recava uno zero, tondo tondo. L’istituto campicchiava con il magro “contributo di funzionamento” versato dal ministero della Istruzione. Le prime risorse “aggiuntive” giunsero proprio dalla Fondazione cassa di risparmio da lui presieduta, permettendo al Conservatorio di svolgere i concorsi internazionali di clavicembalo e di fagotto, rafforzando così anche l’immagine di Pesaro, con l’afflusso di giovani esecutori da tutta Europa, quale “Città della musica”.

Concluse il suo servizio verso la società con le tristezze procurategli dalle perdite della Fondazione dovute ai guai di Banca Marche. E quando le cose vanno male emergono contestazioni, accuse non sempre meritate. Nessuno però ha mai ricordato la sua lotta perché, molti anni addietro, Banca Marche fosse aggregata a entità finanziarie nazionali molto robuste (“Passa questo treno”, diceva. “Perché non dobbiamo prenderlo?”) che avrebbero consentito una più accorta e corazzata gestione dell’istituto, la cui debolezza era nota da tempo. Si levarono accuse di abbandono del territorio, se non di tradimento della identità marchigiana, e non se ne fece nulla. Con le conseguenze che poi abbiamo visto.

Quando un personaggio viene a mancare abbondano i commenti che tendono a santificarlo. Non penso che Gianfranco fosse un santo. Albergavano in lui tutte le fragilità che ogni uomo, qualunque uomo, si porta dietro. Ma di macchie particolari non ne ho né ricordo, né notizia.


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