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Tutti i perché della sintonia fra Trump e al-Sisi

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Si può immaginare cosa abbiano pensato, i genitori di Giulio Regeni, del caloroso abbraccio di ieri tra Donald Trump e il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Poco dopo la conferenza stampa in Senato di Claudio e Paola Regeni, durante la quale hanno fatto appello al papa perché si ricordi di loro figlio nel prossimo viaggio in Egitto, a Washington si schiudevano le porte della Casa Bianca per l’indiscusso dominus del Paese dei faraoni.

Davanti ai fotografi radunati nello Studio Ovale, Trump e al-Sisi hanno esibito reciproca soddisfazione. Al-Sisi spende parole d’elogio per la leadership di Trump, presidente eterodosso che non nasconde le proprie simpatie per i capi carismatici e autoritari, a partire da Zar Vladimir. Nel loro primo incontro lo scorso settembre, il candidato repubblicano aveva definito il suo futuro collega “fantastic guy”, preannunciando la svolta americana nei confronti dell’Egitto dopo quattro anni di embargo politico voluto da Barack Obama.

Il predecessore di The Donald aveva scelto di voltare le spalle allo storico alleato dopo il colpo di Stato del 2013, quando l’allora ministro della Difesa al-Sisi depose il presidente in carica della Fratellanza Musulmana, Mohammed Morsi, preludio alla sua investitura alla presidenza della repubblica avvenuta l’anno successivo con una votazione che gli attribuì il 97% dei consensi. Obama, che aveva cominciato un dialogo col presidente islamista, non la prese bene. Raffreddò le relazioni tra i due Paesi e congelò gli aiuti militari – 1,3 miliardi di dollari l’anno – che l’America assegnava tradizionalmente al Paese che aveva siglato una coraggiosa pace con Israele nel 1979. Per il nuovo uomo forte del Cairo, le porte della Casa Bianca rimasero inaccessibili.

Nel frattempo, però, Al-Sisi ha portato avanti la sua rivoluzione. Da subito, si impose come il nemico numero uno dell’Islam politico, incarnato dalla Fratellanza Musulmana, ma anche delle derive radicali della religione islamica. Rimarrà nella storia la sua visita all’università di al–Azhar, il “Vaticano sunnita”, dove davanti ad una platea di imam e leader religiosi, ammonì tutti sostenendo che l’Islam avesse urgente bisogno di una riforma. Subito dopo, era il Natale 2014, partecipò alle feste natalizie della chiesa copta, manifestando amicizia verso una minoranza religiosa che ha patito non poco sotto l’offensiva dei gruppi islamisti egiziani più intolleranti. Tutti segnali che non sono passati inosservati, e che ora, con Trump alla Casa Bianca, saranno valorizzati nel quadro di una rinnovata alleanza.

In cima all’agenda comune, la lotta al terrorismo jihadista. L’Egitto lo combatte in casa: dal 2015 nel Sinai settentrionale c’è una delle “province” del Califfato, responsabile di attacchi quotidiani contro le forze armate egiziane. Ma l’Egitto può fare molto anche in Libia, dove sostiene le forze del generale Haftar, capo dell’esercito che fa capo al governo di Tobruk. Infine, un ruolo egiziano sarebbe prezioso nel rilancio del processo di pace in Terra Santa, dove il Cairo potrebbe assumere la leadership dei paesi sunniti nel quadro dell’intesa regionale che Washington intende cesellare.

Motivi per ricevere al-Sisi con tutti gli onori alla Casa Bianca insomma ce n’erano. Compreso l’elemento che più preme al variegato fronte che non ha digerito la svolta trumpiana: i diritti umani degli egiziani sistematicamente violati dal regime. Un tema di cui discutere dietro le quinte, hanno fatto sapere collaboratori del presidente americano. Gli Stati Uniti saranno anche la terra dove fu elaborata la carta Onu dei diritti umani. Ma non è il caso di rovinare la festa, pensano a Washington, preparata per il “fantastic guy” venuto dal Cairo.



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