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Perché la strategia del Def di Padoan è incerta

def, banche

Il prossimo Def, che conterrà il quadro previsionale macroeconomico e le linee guida della politica di bilancio per il 2018, preciserà innanzitutto i contenuti della “manovrina” di primavera. Anche questo aggiustamento dovrà avere carattere strutturale, per ottenere già entro la fine del corrente anno un incasso di 3,4 miliardi di euro, pari allo 0,2% del pil. Essendo disposta quasi a metà anno, l’incidenza su base annua varrà circa il doppio, e la sua proiezione verrà contabilizzata per intero a partire dal 2018. Questa sarà la base di partenza per la manovra strutturale di autunno, ben più consistente, che deve arrivare allo 0,5% del pil. Si dovranno trovare all’incirca 20 miliardi annui, per sostituire con altrettante misure strutturale le clausole di salvaguardia che già dispongono a decorrere dal 2018 gli aumenti dell’Iva.

La correzione di primavera dovrebbe essere già definita, con un mix di tagli lineari alle spese ministeriali, di interventi sulle accise e sui giochi, e di maggiori incassi sull’Iva attraverso la estensione del sistema di split-payment a nuovi settori. Si aggiungeranno i finanziamenti per la ricostruzione delle aree terremotate del centro Italia, per circa un miliardo l’anno per un triennio, che non però non incidono sulla spesa strutturale.

Per quanto riguarda il 2018 e seguenti, la ossatura strategica Def si presenta assai incerta: da una parte, c’è il forte impatto politico di ulteriori e più consistenti correzioni strutturali del bilancio; dall’altra, la prospettiva di rinegoziare a breve con la Commissione le regole sulla flessibilità, riducendo per tutti i Paesi che aderiscono al Fiscal Compact il ritmo delle correzioni strutturali annue (lo 0,5% del pil) oggi prescritte al fine di arrivare al pareggio di bilancio. Né va sottaciuta la eventualità che, ove Matteo Renzi dovesse vincere le primarie del Pd ritornando Segretario del partito, si arrivi alla fine anticipata della legislatura anche prima della adozione delle misure correttive ipotizzate nel Def.

In questo contesto, il Def 2017 sarà dunque una raccolta di intenzioni per lo più abbozzate. Nessuno comunque dovrà fare brutta figura: né il governo in carica, che si presenterà con le carte formalmente in regola con la correzione strutturale dello 0,2% del pil già a partire da quest’anno e poi con quella dello 0,5% dal 2018 in avanti; né la Commissione europea che potrà prenderà per buone le promesse, in attesa di settembre. Qualche piccolo strappo negoziale potrebbe esserci, anche solo per lasciare spazio alle trattative volte alla revisione della Comunicazione della Commissione europea sulla flessibilità del 13 febbraio 2015.

Vale la pena, a questo punto, riepilogare quanto è accaduto finora, sia nei rapporti tra la Commissione europea e l’Italia in ordine alla impostazione dei bilanci del 2016 e 2017, sia in relazione ai risultati del 2016 in termini di pil, deficit e debito pubblico. Rappresentano la base di partenza per lo scenario su cui verrà costruito il Def 2017.

In una nota del 26 maggio dello scorso anno, la Commissione europea metteva già in luce tre aspetti relativi alla deviazione dell’Italia dal percorso di azzeramento del deficit strutturale: nel Def 2016, appena varato, si prevedeva una peggioramento del deficit annuo dello 0,4% (rispetto alla correzione migliorativa dello 0,5% che rappresenta la regola), di cui lo 0,3% riferito alla clausola di esclusione degli investimenti pubblici e lo 0,1% alla clausola legata alle riforme strutturali. A sua volta, questo ultimo 0,1% di flessibilità per le riforme si andava a sommare allo 0,4% già ottenuto allo stesso titolo nel 2015, esaurendo così il plafond dello 0,5% complessivamente ottenibile. Rispetto alle previsioni formulate nel 2015, che prevedevano nel 2016 un deficit dell’1,8% del pil, si arrivava così al 2,2%. In aggiunta, invocando le circostanze eccezionali legate al terrorismo ed all’immigrazione incontrollata, il governo italiano aveva richiesto nel Def 2016 un ulteriore margine di flessibilità, per lo 0,2%, arrivando così ad un deficit annuo del 2,4% del pil. Rispetto ad un miglioramento del deficit strutturale pari allo 0,5% richiesto, l’Italia si presentava con un peggioramento dello 0,6%: di conseguenza, veniva a slittare ancora una volta, addirittura oltre l’orizzonte del 2019 considerato dal documento, il raggiungimento del pareggio strutturale che era stato invece previsto per il 2016 dal Def 2014 e poi nel 2018 dal Def 2015. Se si rammenta che, nella ancor famosa lettera a doppia firma Trichet-Draghi del 3 agosto 2011, si richiedeva al governo italiano il pareggio strutturale del bilancio entro il 2013, si può ben constatare come tra il dire ed il fare ci sia di mezzo molto più di un mare. Dopo la approvazione della legge di bilancio per il 2017, la Commissione ha ribadito le osservazioni formulate a maggio, e ci si è accordati per la correzione strutturale del deficit, per il citato 0,2% del pil, che sarà introdotta con la cosiddetta manovrina di primavera.

I risultati del 2016 sono stati sostanzialmente in linea con l’evolversi delle previsioni: il pil è aumentato dello 0,9%, rispetto allo 0,8% previsto dal governo a settembre in riduzione rispetto all’1,2% di aprile; mentre l’indebitamento netto della PA è stato del 2,4% del pil.

Per quanto riguarda le prospettive per il 2018, il primo snodo è rappresentato dal livello del deficit, che è stato fissato programmaticamente dal Def di settembre scorso all’1,2% del pil, rispetto ad un tendenziale di appena l’0,8% che sconta la applicazione delle severe clausole di salvaguardia che aumentano l’Iva.

Le ipotesi che si fanno in ordine alle correzioni strutturali sono numerose, ma si concentrano su due misure in particolare: da una parte c’è la revisione delle detrazioni fiscali (tax expenditure) e dall’altra il passaggio il diverso computo per l’imposizione catastale, passando dal numero di vani al numero di metri quadrati.

La revisione delle deroghe fiscali si presta ad interventi di grande consistenza dimensionale in termini di maggior gettito fiscale, considerando che lo studio condotto nel 2011 dalla Commissione Vieri Ceriani aveva censito ben 720 norme di legge che allora andavano a sottrarre nel complesso oltre 253 miliardi di euro al gettito fiscale, considerando le imposte erariali, i prodotti ammessi alle aliquote ridotte dell’Iva, l’Irap e le imposte locali. Nello studio, le misure derogatorie e di favore venivano inquadrate in categorie, al fine di individuare la norma costituzionale che giustificava la deroga ovvero l’interesse generale incentivato, stimando singolarmente la perdita di gettito derivante.

E’ già stata invece oggetto di vivissime contestazioni la attuazione delle modifiche al sistema catastale, di cui si discute da diversi anni: è una riforma perennemente nel cassetto della Amministrazione finanziaria, di cui si teme un effetto di ulteriore appesantimento del prelievo sugli immobili, dopo le rivalutazioni effettuate per legge al fine di calcolare l’IMU, e le revisioni per singole zone censuarie adottate da parte dei Comuni.

Nel Def potrebbe trovare spazio anche una misura volta ad accelerare il taglio del debito, mediante la cessione alla Cassa Depositi e Prestiti di azioni di risparmio di una costituenda holding, a cui verrebbero conferite le quote di proprietà dello Stato nelle principali imprese: in questo modo, la Cassa non avrebbe poteri sulla gestione ma solo un trattamento di favore nella distribuzione degli utili. Il provento dell’operazione servirebbe all’ammortamento anticipato di un corrispondente ammontare di titoli di debito in circolazione. E’ solo una operazione di ingegneria finanziaria, che sfrutta la esclusione della Cassa dal perimetro delle PA. In alcuni ambienti, di recente è stata anche prospettata la ipotesi di far entrare nel capitale della Cassa altri investitori privati, in aggiunta alle quote detenute dalle Fondazioni bancarie: è un tema assai delicato per il fatto che la Cassa raccoglie fra il pubblico il risparmio che beneficia della completa garanzia dello Stato. Per di più, i Buoni fruttiferi postali sono immediatamente rimborsabili alla pari, qualunque sia la scadenza prevista per la emissione. L’ingresso di capitale privato nella Cassa, in aggiunta alle Fondazioni che hanno un rilievo pubblicistico, creerebbe un conflitto assai grave nella gestione dei fondi raccolti. Diversa, naturalmente, sarebbe la prospettiva di collocare direttamente sul mercato, azioni di risparmio di questa nuova holding pubblica. Quello che si intuisce è la volontà di abbattere contabilmente, con questa cessione alla Cassa, i 20 miliardi di debito pubblico aggiuntivo rispetto all’ammontare derivante dal deficit di bilancio, che sono stati decisi per procedere ai salvataggi bancari, con la ricapitalizzazione del Monte dei Paschi di Siena e delle due banche venete.

Per quanto riguarda la web tax, finora si è rinviata ogni decisione auspicando una normativa omogenea a livello europeo. Nel frattempo, tra i grandi operatori c’è qualcuno che si è messo in regola con il fisco mentre altri sono sotto inchiesta per evasione. Nulla si sa, invece, del ruling internazionale concordato tra l’Amministrazione finanziaria e le multinazionali che decidono di installarsi in Italia solo a seguito di precise garanzie fiscali: sarebbe una beffa accorgersi solo alla fine, una volta che magari sarà stata varata la web tax, che se ne ricaverà ben poco in quanto nel frattempo sono stati assunti accordi fiscali blindati, non modificabili da norme successive.

Ci sarà molto probabilmente spazio per il taglio del cuneo fiscale, che rappresenta la differenza tra il costo del lavoro ed il netto in busta paga. E’ una strategia in atto da tempo, che mira a spostare la tassazione dalle persone alle cose,  dal lavoro ai consumi, riducendo le imposte dirette ed incrementando quelle indirette. Nella migliore delle ipotesi, se gli sgravi non andranno ad incrementare i profitti, questa manovra servirà alle imprese per fare i rinnovi contrattuali a costo zero: il risparmio di imposta per l’impresa verrebbe trasferito in busta al lavoratore, che però poi si troverà da pagare accise ed imposte indirette più alte.

Infine, c’è la sempre incombente imposta sulle donazioni e sulle successioni: sarebbe una nuova imposta immobiliare, in un momento in cui gli immobili in vendita non hanno mercato. Il solo parlarne non porta bene.

Una sola considerazione, per concludere. Si insiste con la correzione del bilancio, considerando le poste economiche. Di qui ad un anno, due manovre pari complessivamente allo 0,7% del pil porteranno ad una nuova flessione del ciclo, visto che il moltiplicatore fiscale è di gran lunga superiore all’unità. Una condizione ancor più pericolosa, perché il sistema del credito è ingessato mentre il risparmio viene drenato all’estero, per centinaia di miliardi.

La ricetta europea, uguale per tutti, non considera che siamo già l’unico Paese insieme alla Germania ad avere un saldo primario in attivo: non restituiamo con la spesa tutte le entrate percepite, dacché una buona parte (tra l’1,5 e l’1,7% del pil, a tanto ammonta l’avanzo) va a pagare gli interessi sul debito. Ed il deficit, il nuovo debito contratto annualmente, serve solo per pagare la residua quota di servizio del debito. Il bilancio pubblico non fornisce nessun impulso positivo all’economia, anzi drena risorse al sistema finanziario che le investe all’estero. Andava stabilito un obiettivo da raggiungere in termini di saldo primario attivo, non alla velocità con cui arrivare ad un insostenibile pareggio strutturale.

Per colmo dell’ironia, paghiamo ben caro il debito pubblico contratto per partecipare al Fondo Salva Stati (Esm), una cinquantina di miliardi, di cui hanno beneficiato tanti Paesi e tanti sistemi bancari europei. Ed il Fondo investe in chissà quali asset, magari tedeschi con la Tripla A, mentre il Tesoro italiano si indebita ancora per sostenere le nostre banche.

Mancano solo un paio di giorni alla presentazione del Def. Per la sua attuazione, ci vorrà assai più tempo.

Per capire bene che cosa ci sta succedendo, di tempo ce n’è stato invece fin troppo.


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