La Cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese François Hollande hanno diffuso un comunicato congiunto in cui non citano l’attacco deciso da Donald Trump contro una base siriana da cui sarebbero partiti gli aerei per colpire con le bombe al sarin a Idlib martedì, però indicano Bashar el Assad come “interamente responsabile” di aver gassato il suo popolo e “per questo sviluppo”. (Più chiari i rispettivi ministri degli Esteri, il tedesco Sigmar Gabriel ha definito “comprensibile” l’attacco americano, il francese ha spiegato che la Russia e l’Iran non possono pensare di sostenere la Siria “fino all’agonia”).
La Francia, ricorda il comunicato, era già pronta a un’azione punitiva nel 2013, quando un altro attacco chimico, di dimensioni dieci volte peggiore, colpì i civili di un quartiere di Damasco in mano all’opposizione. A quei tempo Barack Obama pensò alla ritorsione armata per il superamento da parte del regime siriano di una delle red lines che il presidente americano aveva imposto l’anno precedente. Poi tornò sulla sua decisione, quando i francesi erano già pronti sulla pista di lancio; circostanza che viene ancora ricordata quando si parla dei rapporti attuali tra Parigi e Washington.
Da Londra arriva un commento più specifico: l’attacco americano, per gli inglesi, è “una risposta appropriata al barbaro attacco con armi chimiche lanciato dal regime siriano. È un’azione mirata a scoraggiare ulteriori attacchi”. “Spero che la Russia impari da quello che è successo la scorsa notte” ha detto alla BBC il ministro della Difesa Michael Fallon.
Nella notte tra giovedì e venerdì Trump, dopo aver detto il giorno precedente che il sarin a Idlib aveva superato “molte e molte linee” e cambiando repentinamente visione sulla situazione siriana, è passato all’azione. I partner strategici europei ringraziano, incassano i benefit e intanto restano con le mani pulite: circostanza che non è esattamente nel solco del riequilibrio teorico sull’impegno americano nel mondo predicato dal Trump dell’America First – non sarà il cambio di faccia interventista, perché come ci tengono a sottolineare dall’amministrazione americana si tratta di un avvertimento misurato, ma la retorica che sta dietro alle parole “se l’America sta dalla parte della giustizia, alla fine pace e armonia prevarranno” è una lettura molto più ideologica che sulla linea pragmatica del riequilibrio. (Un conto è la teoria, un altro è trovarsi davanti a circostanze pratiche e a crisi in divenire).
Da registrare anche le reazioni positive degli storici partner americani della regione: Turchia (con cui Washington vive una fase interlocutoria), Israele (che ha a cuore la questione armi chimiche siriana perché teme che possano essere passate a Hezbollah e usate contro Gerusalemme) e Arabia Saudita (con cui i rapporti sono stati notevolmente ri-stretti fin dai primi giorni dopo l’elezione di Trump). Anche il Giappone e l’Australia hanno appoggiato l’azione di Trump come punizione per “i crimini contro l’umanità” commessi da Assad (ha detto il premier australiano Malcom Turnbull): entrambe le nazioni hanno interesse a mantenere una linea pro-americana, l’Australia perché nell’anglosfera ha un cardine fondamentale, il Giappone per gli interessi nel Pacifico.
Anche la Farnesina si è schierata sul lato americano: il ministro degli Esteri Angelino Alfano ha rilasciato uno statement ufficiale in cui dichiara di comprendere le ragione dell’azione militare americana “proporzionata nei tempi e nei modi”. La scelta lessicale probabilmente non è casuale: l’amministrazione statunitense ha usato l’aggettivo “proporzionata” in più occasioni per definire l’azione (per esempio, è il termine scelto dal segretario di Stato Rex Tillerson).