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Luigi Zingales, i due euro e il gioco delle tre carte

Luigi Zingales ha lanciato su Il Sole 24 Ore la proposta di avviare un “dibattito intelligente e costruttivo” sull’uscita dell’Italia dall’euro, considerandone le conseguenze in termini di svalutazione, crescita, esportazioni, occupazione, etc (Link). Una proposta apparentemente intelligente. E che già da molto tempo avrebbe dovuto essere raccolta dall’accademia (non solo) italiana, invece che lasciarla nelle mani dei blogger e dei sedicenti neo-esperti di economia che se ne sono occupati in questi ultimi anni.

Ci sono però alcuni problemi nel modo in cui l’ha proposta Zingales. Il primo: i contributi dovrebbero utilizzare solo citazioni accademiche, presumibilmente tratte dalla letteratura del settore, ossia economica. Un’osservazione apparentemente banale, per assicurare un carattere di scientificità agli scritti. Ma che nasconde un’insidia. Pericolosa.

L’euro è un progetto politico. Le sue motivazioni non stanno in argomentazioni di scienza economica. Sotto il profilo tecnico-economico, è ovvio che l’attuale costruzione della governance economica europea non regge. E come potrebbe? Con una politica monetaria sovranazionale, agganciata a considerazioni reali solo grazie all’audacia del suo attuale governatore, e diciannove politiche di bilancio completamente autonome a livello nazionale, peraltro vincolate dal rispetto del Patto di Stabilità e quindi impossibilitate a realizzare politiche anticicliche. È una costruzione che può andar bene quando l’economia gira normalmente; non quando si attraversa per dieci anni una crisi strutturale profonda.

Per questo la proposta di Zingales è fuorviante: nella letteratura economica si possono trovare solo argomentazioni che possono spiegare come e perché questa struttura intergovernativa della governance economica, con l’euro lasciato da solo a difendere le scelte collettive europee, è destinata al fallimento. Se accanto all’euro non saranno presto creati strumenti di spesa e redistribuzione delle risorse a livello federale; se all’Europa monetaria e delle diplomazie governative non verranno affiancate un’Europa sociale, solidale e dei cittadini, questa costruzione crollerà. Per questo infatti occorre rimboccarsi le maniche per individuare i modi per far avanzare anche in questi ambiti il processo d’integrazione europea, di condivisione della sovranità, piuttosto che perdere tempo ed energie a mettere in evidenza le debolezze della moneta unica in questo contesto di governance economica e politica perversa.

Secondo problema: Zingales fa riferimento ad un euro del nord ed uno del sud, come se vi fosse già una risposta implicita alla domanda su che fare dell’euro. Non a caso, pur avendo cambiato più volte opinione, Zingales è convinto della necessità di sdoppiare la moneta unica in due monete comuni. Come se anche questa non fosse una scelta eminentemente politica piuttosto che squisitamente tecnica. Ammettendo che questa suddivisione possa avere un senso rispetto ad una diversa propensione a generare inflazione, più bassa al “nord”, più alta al “sud” (ma è ancora vero? In un periodo di deflazione generalizzata? A meno che non si sottintenda che il debito pubblico “al sud” viene massicciamente monetizzato… quindi con una banca centrale del sud impegnata in una selvaggia politica monetaria accomodante ed una del nord vincolata al rigore… mah): dove mettiamo la Francia?

A quel punto, perché non avere tre, invece che due, diverse valute in Europa? Cosa cambia? Almeno ognuno si sceglie il suo grado di aggiustamento. E perché allora non tornare alle monete nazionali, per venire incontro ancora meglio alle necessità decentralizzate di aggiustamento?

Insomma, nella letteratura economica non solo niente (a parte la stabilità del mercato unico, la diminuzione dei costi di transazione e poco altro) suggerisce che la moneta in Europa debba essere unica; ma che magari dovrebbero essercene un centinaio (in Italia, per esempio, ne servirebbero almeno due per tener contro dei diversi gradi di sviluppo del Meridione e del Settentrione… ma anche qui poi c’è la Terza Italia…).

La verità è che la proposta di Zingales è una boutade, che contribuisce a mettere in discussione (e quindi ulteriormente a repentaglio) la moneta unica.

Una proposta che distrae dai grandi temi: il recupero della produttività, che non è (solo) un problema di lavoratori bighelloni, ma soprattutto della qualità del capitale umano utilizzato, della qualità e quantità degli investimenti infrastrutturali, di logistica, di servizi della pubblica amministrazione, d’innovazione tecnologica, di processo e di prodotto in cui il lavoro si applica e dalle quali dipende in ultima analisi la competitività del sistema economico italiano; la riduzione delle diseguaglianze economiche e sociali; la creazione di un sistema di governo della cosa pubblica credibile, in grado di mutare radicalmente le aspettative negative oggi diffuse.

Una proposta fatta d’accordo col nuovo direttore del quotidiano probabilmente per rilanciarne le sorti, un po’ offuscate dalle recenti vicende giudiziarie, con un dibattito che apparentemente interessa l’opinione pubblica. Ammantandolo pure di quell’aura scientifica e rigorosa che solo l’Accademia riesce a trasmettere, meglio ancora se legata agli Usa, in particolare Chicago, uno dei templi sacri della teoria economica mondiale. Una teoria economica che infatti è così sacra da non essere riuscita a prevedere la crisi, a gestirla, ad evitare che possiamo ricadervi.

L’economia non è una scienza esatta. È una riflessione complessa su variabili che sono anche e soprattutto sociali, psicologiche, politiche e, in ultima istanza, anche economiche. E le cui analisi non possono essere argomentate in maniera semplicistica, in poche paginette.

Zingales lo sa bene. Ma finge di non saperlo, per coprire col gioco delle tre carte l’ineluttabile ignoranza della scienza economica. Sperando che qualche allocco ci caschi.


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