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Vi spiego perché i primi 100 giorni di Trump non sono stati un disastro

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Si può tirare un bilancio dei primi 100 giorni di Trump alla Casa Bianca? La stampa americana, e quella mondiale al seguito, si è tuffata in questo esercizio rituale, la prima valutazione di una nuova presidenza che si compie da quasi un secolo alla scadenza dei cento giorni. I giudizi sono quasi tutti negativi, com’era prevedibile. I media d’altronde sono la bête noire del magnate, che li ricambia con un trattamento ostile che non si vedeva dai tempi di Nixon.

Non sorprende la presenza massiccia di valutazioni negative riguardanti la personalità del presidente. L’icona del tuittatore compulsivo, che aggredisce grossolanamente e a più non posso infischiandosene dell’etichetta che si addice alla prima carica dello Stato, è un punto fisso di opinionisti di ogni estrazione e provenienza, ancora increduli e scossi per la sorprendente vittoria elettorale dell’8 novembre. Non si capacitano ancora di come un “insorgente” possa essere finito nello Studio Ovale, a rivoltare come un calzino la politica interna ed estera della superpotenza.

Il consolidato pregiudizio anti-Trump non fa che accecare la stampa, che non coglie la trasformazione in atto del comandante in capo e della sua linea di governo. Gli obiettivi e i toni del primo Trump, quello del muro e del muslim ban, sono stati accantonati assieme ai loro principali ispiratori, il consigliere strategico Steve Bannon, espulso dalla stanza dei bottoni del National Security Council, e il consigliere Sebastian Gorka, ideologo della lotta totale contro l’islam radicale che proprio in queste ore fonti informate danno per uscente dalle stanze ovattate della Casa Bianca.

Archiviato è anche il minacciato scontro col titano cinese, trasmutato in una relazione amichevole e stretta propiziata dalla “chimica” tra Trump e Xi Jinping. Il presidente si è persino premurato di ripristinare la legalità internazionale in un quadrante che sembrava scomparso dai radar degli Stati Uniti: il Medio Oriente. Con 59 Tomahawk, ha ripristinato la red line sull’uso di armi chimiche in Siria, sfidando nel contempo la cinica geopolitica della Russia schierata con infamia dalla parte del gasatore Assad. Quanto al rischio di una guerra nucleare nella penisola coreana, Trump sta mostrando tutto sommato moderazione affidando alla diplomazia cinese il compito di riportare Kim “l’atomico” alla realtà.

Ma gli exploit in politica estera, si dirà, non compensano i tonfi nell’agone interno. Una delle promesse chiave della campagna elettorale – rottamare l’Obamacare nei primi 100 giorni – è fallita miseramente. La linea dura sull’immigrazione si è scontrata con la pertinacia delle corti, che hanno bocciato due volte di fila gli executive order con cui si chiudevano i confini a profughi e immigrati musulmani, e con le esigenze di bilancio, che hanno fatto venire meno i fondi per la costruzione del “Big wall”.

Ma la settimana scorsa, dal cilindro del tycoon è sbucata la carta reaganiana della riduzione shock delle tasse sulle imprese, assaggio di un’ambiziosa riforma fiscale che mira a consolidare la crescita dell’economia a stelle e strisce e creare più lavoro per i tanti “forgotten men” che alle urne hanno dato il voto al candidato repubblicano.

Tra luci ed ombre, dunque, il mandato di Trump sembra segnato sin d’ora da un tratto peculiare: una personalità esuberante e incontenibile ma anche sufficientemente flessibile da poter fiutare il vento giusto e agire di conseguenza. Che tutto sommato non è male per l’uomo più potente del pianeta.

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