Di argomenti e di fatti ne avrei per tenere anche questi miei Graffi domenicali, che peraltro potrebbero essere tra gli ultimi, nella stretta attualità politica.
Potrei partire dalla benzina rovesciata da Matteo Renzi sul fuoco della polemica attorno a Maria Elena Boschi, Banca Etruria e contorni, innescata dal libro di Ferruccio de Bortoli, accusando l’ex direttore del Corriere della Sera di essersi voluto vendicare di una presunta mancata nomina alla presidenza della Rai. Che de Bortoli si è invece vantato, credo non a torto, di avere rifiutato due volte.
Piuttosto, come ho già scritto qui, Renzi avrebbe potuto accusare de Bortoli con maggiore fondatezza, ma minore convenienza per se stesso, di avere voluto vendicarsi del ruolo dell’allora presidente del Consiglio, dallo stesso de Bortoli avvertito forse non a torto, nell’allontanamento due anni fa dalla direzione –la seconda- del maggiore giornale italiano. Di cui peraltro de Bortoli medesimo già si vendicò nel sostanziale, e provvisorio, commiato da via Solferino, dove sarebbe presto tornato come editorialista, dando a Renzi, che era appunto il capo del governo, del “maleducato di talento”.
Potrei proseguire con le primarie nelle quali il segretario della Lega Matteo Salvini sta misurando la sua forza nel partito dopo la crisi della sua stagione “lepenista” annunciata non più dal solo, solito e vecchio Umberto Bossi ma ora anche dall’influentissimo governatore lombardo Roberto Maroni. Che, diversamente da Salvini, ritiene ancora essenziale e irrinunciabile l’alleanza politica ed elettorale con Silvio Berlusconi.
Potrei infine tornare sui maneggi politici e parlamentari per una nuova legge elettorale dopo gli appelli in direzione maggioritaria rivolti a Renzi da Romano Prodi e da Eugenio Scalfari. Il quale, peraltro, ha profittato dell’occasione per rivisitare la scuderia dei “cavalli di razza” o della riserva della Repubblica -quella vera, non la sua di carta- riammettendovi Enrico Letta, dimenticato qualche settimana fa, aggiungendovi -forse con un po’ di esagerazione- il pur simpatico Giuliano Pisapia e confermandovi Renzi, Walter Veltroni e il già ricordato Prodi.
Ma questi cenni alla cosiddetta attualità potrebbero pure bastare e avanzare. Mi preme invece occuparmi di più di un amico appena scomparso, Clelio Darida. La cui vicenda politica e umana mi sembra particolarmente meritevole di essere ricordata specie in questo anno in cui i vari Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo celebrano i 25 anni trascorsi dalla presunta, assai presunta epopea di Mani pulite.
Così vennero pomposamente chiamate, tra cortei di tifosi delle manette ed altro, le inchieste sul finanziamento illegale della politica: un fenomeno già noto da tempo, almeno dalla famosa intervista degli anni Ottanta dell’allora ministro andreottiano Franco Evangelisti a Giampaolo Pansa intitolata “A Fra’ che te serve?”, ma su cui nel 1992 la magistratura all’unisono, da Milano a Trapani, giusto per indicare due città quasi agli estremi dello stivale, decise di essere implacabile.
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Clelio Darida, morto giovedì scorso nella sua abitazione romana alla bella e fortunata età di 90 anni, compiuti peraltro pochi giorni prima, fu tra quelli colpiti dal ciclone giudiziario chiamato anche Tangentopoli, da tangente naturalmente.
Qualcuno a Milano nel 1993 ne fece il nome tra quanti, col consenso di Cesare Romiti, inquisito pure lui, avrebbero preso soldi per la realizzazione della metropolitana a Roma. Di cui Darida, democristiano di stretta osservanza fanfaniana sino a quando la corrente non si spaccò e lui preferì Arnaldo Forlani all’allora presidente del Senato, era stato sindaco dal 1969 al 1976.
Erano stati sette anni d’intenso lavoro amministrativo e politico, con l’avvio di importanti opere come la metropolitana e la cosiddetta panoramica di Monte Mario, il risanamento delle borgate, il decentramento comunale con le nomine dei primi 240 consiglieri circoscrizionali. La sua ultima giunta capitolina era stata monocolore democristiana con l’appoggio esterno dei comunisti, anticipatrice di quella linea e politica di cosiddetta solidarietà nazionale che il presidente della Dc Aldo Moro concorse in modo decisivo a realizzare con il terzo governo di Giulio Andreotti nel 1976, proprio mentre Darida finiva la sua esperienza capitolina e tornava in Parlamento. Dove avrebbe proseguito la sua carriera politica facendo il sottosegretario all’Interno, peraltro proprio durante il tragico sequestro di Moro ad opera delle brigate rosse, e poi il ministro della Funzione pubblica, delle Poste, delle Partecipazioni Statali e della Giustizia.
Fu, quindi, una carriera di governo di tutto rispetto. Che avrebbe ben potuto proseguire, pur nei marosi della caduta della cosiddetta prima Repubblica e nelle trasmigrazioni politiche che seguirono, con la nascita di nuovi partiti e il cambiamento di nome dei vecchi, se la mattina del 7 giugno 1993 Darida non fosse stato arrestato per ordine della magistratura ambrosiana e tradotto in carcere a San Vittore sotto l’accusa di corruzione per le presunte tangenti già accennate.
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Darida, mentre la moglie Wilma a Roma si dava da fare disperatamente per allertare gli amici politici sulla grande ingiustizia che stava subendo il marito, protestando in modo particolarmente vigoroso col vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura Giovanni Galloni, amico di partito e di lotta giovanissima contro l’occupazione nazista della Capitale, rimase a San Vittore sino al 9 settembre del 1993.
Per darvi un’idea delle condizioni in cui lo misero i magistrati di Milano basterà riferirvi delle preoccupazioni una volta espresse a Darida dal direttore del carcere di San Vittore per la tutela della sua sicurezza, se avesse voluto continuare ad assistere alla messa nelle festività di nostro Signore. E Darida dovette rinunciarvi, dopo essere stato accolto in carcere dai detenuti con lo scherno che vi lascio immaginare per essere stato ministro della Giustizia.
Su ricorso peraltro non suo, ma di un altro imputato nello stesso procedimento, la Cassazione tolse l’inchiesta che lo riguardava a Milano perché la competenza territoriale era naturalmente e sfacciatamente di Roma, dove il reato sarebbe stato consumato. E a Roma, cerca e ricerca, i magistrati non trovarono uno straccio di prova a carico dell’imputato “eccellente” catturato dai colleghi di Milano. Dove- sentite quest’altro particolare- vennero a sapere dell’imminente proscioglimento ormai di Darida, senza neppure andare al rinvio al giudizio, mentre si stava disponendo, o era giù stata disposta, non ricordo bene, un’ispezione ministeriale per altri motivi.
L’allora sostituto della Procura di Roma Francesco Misiani, come poi avrebbe raccontato in un libro scritto dopo aver dovuto lasciare la magistratura, si sentì chiamare da un collega di Milano che gli chiedeva di ritardare almeno di qualche settimana o mese il proscioglimento di Darida. Che alla fine, solo nel 1997, avrebbe ottenuto dallo Stato un risarcimento di 100 milioni di lire per l’ingiusta detenzione e tutto il resto.
A quello sprovveduto, politicamente, di Silvio Berlusconi non venne mai la tentazione di proporre proprio a Darida la nomina a ministro della Giustizia in uno dei suoi governi. No, per il suo primo Gabinetto, come si può anche chiamare in gergo tecnico l’esecutivo- l’allora Cavaliere propose il Ministero dell’Interno a Di Pietro.
Addio, Clelio, amico mio carissimo. Quanto mi mancheranno i tuoi incontri, le tue cene, le tue telefonate, che erano diventate alla fine l’unico modo di scambiarci idee e impressioni. Aspettami anche tu, se è davvero possibile incontrarsi dopo la morte, come mi è appena capitato di scrivere salutando un altro amico, di tutt’altre idee e formazione politica, appena scomparso: Valentino Parlato.