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Marco Travaglio, Matteo Renzi e il giallo delle date Consip tra Pignatone e Woodcock

Marco Travaglio e Henry John Woodcock

Per capire le condizioni non so se più comiche o più tragiche nelle quali sono ridotte in Italia l’amministrazione della giustizia e la credibilità dell’informazione, specie di quella che finge di sfidare spavaldamente la legge e il potere per cercare di vendere una copia in più nelle edicole – che peraltro chiudono sempre più numerose, tanto poco vendono ormai i giornali – basterà sapere che a violare il cosiddetto segreto d’ufficio, o istruttorio, si rischiano meno di cinque euro al giorno di multa per un mese. Bastano e avanzano per evitare un mese, appunto, di carcere. E ciò ammesso e non concesso che ci sia in Italia un giudice, dico uno, che sia capace di mandare in galera un giornalista così taccagno da non volere spendere neppure 129 euro: l’equivalente di una buona cena in tre, compresa la mancia al cameriere che si è risparmiato il gusto di rovesciargli addosso qualcosa perché, con quella supponenza che ha, ed esposizione di telefonini ed accessori, gli stava antipatico.

In questa situazione pensate veramente che qualcuno possa prendere sul serio l’immancabile annuncio dell’apertura di un’indagine all’altrettanto immancabile scoop, come si chiama in gergo giornalistico la pubblicazione di qualcosa che i concorrenti non hanno? Per esempio, il brogliaccio di una intercettazione telefonica. Beh, è difficile, direi disumano, trovare qualcuno che possa da una parte preoccuparsi o dall’altra indignarsi e sperare di trovarsi di fronte alla volta buona per vedere qualcuno condannato a pagare sia pure meno di 5 euro al giorno, ma in compenso – magari – qualche magistrato o qualche altro delatore, diciamo così, a rischio di carriera o di posto.

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Eppure voglio essere disumano o sciocco, come preferite. E sperare – non foss’altro per vedere smascherare una buona volta qualcuno – che il capo della Procura di Roma, il buon Giuseppe Pignatone, venga veramente a capo dell’origine dello scoop del Fatto Quotidiano – e di chi sennò – che è riuscito nell’impresa che pure sembrava impossibile di danneggiare e nello stesso tempo aiutare la persona presa di mira: in questo caso Matteo Renzi. E chi sennò, di nuovo, visto che il segretario del Pd ha preso ormai stabilmente il posto, quanto a ossessione, del Silvio Berlusconi dei tempi migliori?

Parlo dello scoop dell’intercettazione telefonica nella quale il 2 marzo scorso, alla vigilia del suo interrogatorio nella Procura di Roma come indagato di traffico d’influenze illecite per gli affari della centrale degli acquisti della pubblica amministrazione, nota ormai come Consip, Tiziano Renzi si prese una bella ramanzina dal figlio Matteo, preoccupato che il padre con le sue bugie, reticenze o quant’altro gli rovinasse definitivamente la carriera politica. Una ramanzina – ecco l’aspetto doppio dello scoop – che da una parte fa fare a Renzi la figura dello “statista” o della “persona perbene”, come hanno detto i suoi sostenitori, confortati dallo scrupolo dell’ora risegretario del Pd perché il padre dicesse ai magistrati tutta la verità, ma dall’altra lo ripropone alla propaganda dei grillini e dintorni come parte di un giro “familistico” – dicono anche i suoi ex compagni di partito che ne hanno rovesciato la sigla da Pd a Dp – poco consono ad uno statista, o aspirante tale.

Quello uscito peggio dall’intercettazione è il padre di Renzi, che non a caso ha inveito alla maniera grillina contro i giornalisti curiosi di raccoglierne le reazioni. Ma a suo favore, sul piano giudiziario, e almeno sinora, rimane la scoperta fatta dalla Procura di Roma della manipolazione di un’altra intercettazione di un colloquio fra due imputati o indagati usata per contestargli il reato di traffico di influenze illecite. Manipolazione della quale è stato chiamato a rispondere il capitano di un nucleo speciale -ecologico – dei Carabinieri usato per un certo tempo tanto dai magistrati napoletani quanto dai magistrati romani per condurre l’inchiesta Consip.

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A questo punto conviene che io vi ricordi alcune date per farvi capire come e perché mi sia venuta la voglia disumana di sperare che il buon Pignatone venga a capo questa volta della solita fuga di notizie e documenti utili non al processo vero, nei tribunali, ma a quello mediatico. Che serve non a cercare e punire il colpevole, ma semplicemente a sputtanare – scusatemi la franchezza – il disgraziato di turno.

La telefonata fra Renzi padre, col telefono regolarmente e prevedibilmente sotto controllo, e Renzi figlio è della prima mattina del 2 marzo scorso. Telefonata il cui brogliaccio steso dalla polizia giudiziaria è appunto lo scoop del Fatto Quotidiano di ieri, 16 maggio.

Appena tre giorni dopo quella telefonata, il 5 marzo, Pignatone decide o annuncia di fare a meno della polizia giudiziaria ereditata da Napoli, sostituendola con un’altra, sia pure della stessa Arma, per proteggere meglio la sua inchiesta da rischi di fughe di notizie o documenti. Ma nel frattempo il brogliaccio di quella telefonata ha preso due strade: una è quella di Roma, dove Pignatone decide di non mettere il documento neppure agli atti non ravvisandovi – come ha annunciato a scoop avvenuto da parte del Fatto Quotidiano – di non avervi trovato nulla di penalmente rilevante, come si dice in gergo tecnico. L’altra strada è quella di Napoli, dove il nucleo dei Carabinieri scaricato, diciamo così, da Pignatone continua a godere della fiducia della Procura. Nella quale lavora, fra gli altri, l’ormai famosissimo sostituto Henry John Woodcock, ora – guarda caso – sotto esame al Consiglio Superiore della Magistratura.

Ma con le date non è finita. Pignatone torna a farsi vivo il 3 aprile con un articolo su Repubblica contro i pericoli della gogna mediatica seguita alla violazione del segreto istruttorio e il 13 aprile con un intervento contro la pratica dei rapporti privilegiati o particolari fra magistrati o uffici giudiziari e certi giornalisti o giornali. Nel frattempo lo stesso Pignatone ha aperto il vaso di Pandora contestando al già ricordato capitano dei Carabinieri di cui si era liberato il 5 marzo la manomissione dell’intercettazione, risalente allo scorso mese di dicembre, servita a coinvolgere nelle indagini il padre di Renzi e a impensierirne il figlio. Che vorrebbe -credo giustamente- un babbo meno loquace, più sincero e meno pasticcione, per quanto sia finito nel tritacarne giudiziario per una intercettazione manomessa.

Raccontatovi tutto questo, lascio la soluzione del giallo dell’ultimo, per ora, scoop del giornale di Marco Travaglio, e dell’inviato giudiziario Marco Lillo, alla vostra fantasia, in attesa alla conclusione delle indagini annunciate da Pignatone.


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