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9 maggio 1978, verità e menzogne sull’uccisione di Aldo Moro

Moro

Per quanto l’attualità politica sia ben altra, quasi all’indomani di due fatti – l’elezione di Emmanuel Macron a presidente della Repubblica di Francia e il ritorno di Matteo Renzi alla segreteria del primo partito d’Italia – che potrebbero finire per intrecciarsi e riservarci sorprese, vedremo se più amare o più dolci, secondo i gusti naturalmente; e mentre Sergio Mattarella riceve all’estero da Roma notizie che lo incoraggiano forse a sperare che sia la volta buona perché si proceda finalmente in Parlamento a varare quella riforma o riformetta elettorale da lui ritenuta necessaria per affrontare una eventuale crisi di governo con tutti i poteri conferitigli dalla Costituzione, compreso quello di sciogliere anticipatamente le Camere, già troppo consumate di loro, e rimandare gli italiani alle urne; per quanto, dicevo, ci siano tante cose a bollire nella pentola dell’attualità politica, non riesco a togliermi dalla testa un ennesimo, triste anniversario.

Sono oggi trascorsi ben 39 anni dal 9 maggio del 1978, quando una banda di sciagurati delle brigate rosse – al minuscolo, per favore, come raccomandava la buonanima di Sandro Pertini per non confonderle con quelle omonime da lui conosciute durante la Resistenza, con la maiuscola naturalmente – uccise Aldo Moro, che era allora il regolo della politica italiana, dopo una prigionia di 55 giorni, cominciata col sequestro e la strage della sua scorta a poche centinaia di metri da casa, a Roma. Un omicidio, quello di Moro, dichiaratamente compiuto dagli assassini sparandogli nel bagagliaio di un’auto chiusa in un box della palazzina dove era stato nascosto. Un’auto poi guidata per mezza città, sfidando controlli e incidenti, per essere posteggiata provocatoriamente a due passi dalle sedi dei due partiti -la Dc e il Pci- che avevano impedito di trattare il rilascio dell’ostaggio liberando tredici detenuti per reati di terrorismo definiti “prigionieri politici” dai banditi. Era peraltro anche il giorno di una importante riunione della direzione nazionale della Dc, attesa da Giovanni Leone per firmare, come vedremo, materialmente una grazia nel tentativo disperato di fermare gli assassini.

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Già divisasi nella decisione di chiudere il sequestro nella stessa maniera tragica in cui l’avevano cominciato, cioè versando sangue innocente, l’infausta “direzione strategica” delle brigate rosse ordinò l’esecuzione della “sentenza di morte” in tempo per impedire che l’allora presidente della Repubblica, Leone appunto, forse anche per questo costretto poi a dimettersi dai sostenitori della linea della fermezza sei mesi prima della scadenza del proprio mandato, firmasse un provvedimento di clemenza predisposto per Paola Besuschio. Ch’egli aveva scelto in assoluta autonomia e con criteri umanitari, per le sue precarie condizioni di salute, fra i 13 detenuti di cui i terroristi avevano reclamato la liberazione.

Così i brigatisti, informati con una tempestività che avrebbe angosciato il povero Leone sino alla morte, nel 2001, si risparmiarono il fastidio, chiamiamolo così, di tornare a dividersi nella valutazione se la grazia alla sola Besuschio potesse essere considerata sufficiente a segnare una loro vittoria nella sfida lanciata allo Stato la mattina del sequestro del presidente della Dc. Che il 16 marzo del 1978 stava recandosi alla Camera per la presentazione del quarto governo del suo collega di partito Giulio Andreotti, appena costituito per disporre della fiducia del Pci guidato da Enrico Berlinguer. E ciò dopo una lunga e difficile trattativa politica condotta per la Dc proprio da Moro. Grazie alla cui capacità di persuasione e di realismo Berlinguer aveva rinunciato al proposito di fare nominare ministri due indipendenti di sinistra eletti nelle liste del Pci, accontentandosi di passare dall’astensione nei riguardi dello stesso governo alla fiducia negoziandone solo l’aggiornamento del programma.

Tutto questo era evidentemente bastato e avanzato alle brigate rosse, e a quanti le controllavano o usavano, a considerare sia Moro che Berlinguer, tenuti di mira da tempo, dei traditori della sinistra e complici del demenziale Stato imperialistico mondiale contro il quale si sentivano impegnati a combattere. E non potendo attentare a Berlinguer, anche perché a quello potevano provvedere direttamente a Mosca e dintorni, come si era già tentato di fare nel 1973 in Bulgaria, attentarono a Moro. Che andava in giro per Roma su un’auto blindata per modo di dire e con una scorta -pace all’anima di tutti i componenti- troppo metodica nei percorsi e soprattutto abituata a mettere nel bagagliaio delle auto di servizio, anziché imbracciarli sistematicamente, i mitra in dotazione.

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La notte della Repubblica, come fu chiamata per diverse e tutte fondate ragioni la stagione del sequestro di Aldo Moro, si è purtroppo infittita, anziché schiarirsi, col passare degli anni. Ogni volta che si è cercato di venirne a capo con indagini giudiziarie e parlamentari, al di là della cattura e della condanna degli autori del sequestro, il buio si è infittito, anziché diradarsi. I misteri sono aumentati, anziché ridursi. E i racconti fatti, con deposizioni giudiziarie, memoriali, interviste e quant’altro dai terroristi condannati, nessuno dei quali più in carcere, si sono rivelati sempre più reticenti. Direi, odiosamente reticenti, evidentemente motivati con la necessità di coprire responsabilità e complicità a dir poco inquietanti, capaci di compromettere ancora più di quanto già non sia accaduto il mito ideale e rivoluzionario, sia pure fallito, delle brigate rosse: sempre al minuscolo, vi raccomando.

L’ultima menzogna, che infittisce la notte della Repubblica, l’ha appena scoperta la commissione parlamentare d’inchiesta sulla vicenda Moro presieduta dall’ex ministro Giuseppe Fioroni con una rilevazione tecnica che incredibilmente nessun inquirente aveva mai ritenuto di effettuare.

Si è accertato, in particolare, che l’auto nel cui bagagliaio i brigatisti uccisero Moro, lasciandone tracce di sangue e altro, non poteva materialmente entrare nel box per consentire loro quell’operazione di morte. Doveva sporgervi di parecchio, e finire a vista di qualunque avesse avuto la ventura di uscire dalla palazzina a quell’ora usando la propria vettura, perché i Mario Moretti e compagni a bagagliaio aperto potessero passarsi l’arma e sparare a turno contro l’ostaggio, come hanno raccontato.

A questo punto è diventato possibile sospettare, o risospettare, tutto: anche che Moro non fosse stato ucciso in quel maledetto box di via Montalcini, né trattenuto in quella palazzina. E chissà dove, allora. E chissà con quali e quante complicità. E chissà con quanti mascalzoni sfuggiti alle loro responsabilità, e magari ancora in grado di nuocere, almeno alla verità.

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