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Davigo premier in un governo a 5 stelle sostenuto da Salvini?

PIERCAMILLO DAVIGO

Se Carlo Calenda in mancanza dello sviluppo economico dell’Italia, del cui omonimo ministero è titolare, è davvero tentato – come si dice e si scrive un po’ dappertutto- dallo sviluppo almeno della sua carriera politica, il suo amico ed estimatore Fedele Gonfalonieri, presidente di Mediaset pur aduso alla prudenza per mettere sempre al riparo l’azienda, non gli ha fatto un grande servizio incoraggiandolo ad emulare il novo presidente della Repubblica Emmanuel Macron. Che è appena arrivato all’Eliseo dopo essersi messo in proprio, diciamo così, per scomporre i vecchi partiti e offrirsi come il vero e più affidabile garante dell’antilepenismo, paragonabile in Italia non tanto all’antileghismo pur lepenista quanto all’antigrillismo.

Da noi, in effetti, la Lega di Matteo Salvini, così diversa da quella fondata e a lungo guidata da Umberto Bossi, non potrà mai concorrere in voti col movimento pentastellare di Beppe Grillo. Potrebbe al massimo fargli da supporto parlamentare se al partito, o come diavolo preferisce chiamarsi, del comico genovese dovesse riuscire di salire in testa alla graduatoria elettorale e di rivendicare il diritto all’incarico di presidente del Consiglio. Cui ben difficilmente Grillo designerebbe davvero i vari Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, ma forse uno come Piercamillo Davigo. Così finirei paradossalmente per rimpiangere la Repubblica giudiziaria che pur vado lamentando da 25 anni, quanti ne sono passati dal terremoto politico di Tangentopoli, di fronte a quella ancora più autenticamente e sfacciatamente giudiziaria che diventerebbe l’Italia con l’ex presidente dell’associazione nazionale dei magistrati a Palazzo Chigi.

Non ditemi, per favore, di stare tranquillo, anzi sereno, come preferirebbe Matteo Renzi, avendo Davigo appena assicurato di non avere ambizioni politiche. Già altri magistrati dissero così e poi ce li siamo trovati parlamentari, ministri e capipartito. Basta un nome per tutti: Antonio Di Pietro.

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Confalonieri non ha fatto un buon servizio a Calenda incoraggiandone la carriera politica, gli ha anzi tirato contro la porta sfondandogli la rete, perché ha allarmato più di quanto già non lo fosse per suo conto il risegretario del Pd Matteo Renzi. Che per le dimensioni del partito che guida e per temperamento ritiene di essere quello che dà le carte. E non ha certamente gradito il discorso di Calenda all’assemblea della Confindustria, dove Confalonieri si è spellato le mani ad applaudirlo prima di correre a salutarlo come il Macron italiano, fingendo furbescamente di scherzare ma non scherzando per niente.

E’ stato un discorso, quello del ministro del (mancato o scarso) sviluppo economico, tutto proteso a contestare la prospettiva delle elezioni anticipate sulla quale invece Renzi è tornato a lavorare, se mai avesse smesso di farlo, ora che ha trovato una sponda nella Forza Italia di Silvio Berlusconi, pur al netto di qualche malpancista azzurro.

Non a caso proprio dopo l’uscita di Confalonieri, che spesso mostra di dissentire dal suo amico di una vita e socio d’affari Silvio Berlusconi non per mettersi davvero di traverso ma solo per un vantaggioso scambio delle parti, Renzi ha frenato il gruppo del suo partito alla Camera nella corsa verso la riforma elettorale in cantiere nella competente commissione per incontrare prima, e di persona, l’ex Cavaliere di Arcore. Al quale – statene certi, al di là o contro tutte le smentite che potranno o dovranno arrivare – chiederà quali intenzioni o progetti abbia davvero per Calenda, magari ricordandogli che l’aiuto offerto dal ministro alla difesa di Mediaset dalla scalata della francese Vivendì non è stata una iniziativa personale, ma di governo. E di un governo presieduto, per scelta e sotto il controllo del suo partito, da Paolo Gentiloni.

Il “Renzusconi” che è appena tornato a denunciare il solito Massimo D’Alema in una intervista al Corriere della Sera, rappresentandolo come il pericolo maggiore per la democrazia italiana, non ha tanta carne politica attorno all’osso, per cui il segretario del Pd non può essere molto generoso, e tanto meno sprovveduto, nella immaginazione dello scenario post-elettorale, quando si potranno o dovranno fare gli accordi di governo, non essendo materialmente prevedibile  l’autosufficienza di nessuno dei leader e dei partiti in campo.

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E’ nota, anzi arcinota, l’ambizione di Renzi a tornare anche a Palazzo Chigi, per una seconda edizione del cosiddetto doppio incarico, per quanto esso non abbia portato molta fortuna a chi l’ha praticato nella prima Repubblica, in particolare ad Amintore Fanfani e a Ciriaco De Mita, e neppure a lui. Che è rimasto a Palazzo Chigi per più di mille giorni, come si è sempre vantato l’ex presidente del Consiglio, ma senza riuscire a trasformare il suo maggiore potere in maggiore consenso, visto l’esito disastroso, peraltro non solo per lui, del referendum del 4 dicembre scorso sulla riforma costituzionale.

Sono in parecchi fra gli stessi amici vecchi e nuovi, come il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari, ad avere sconsigliato e a sconsigliare ancora a Renzi di puntare daccapo su Palazzo Chigi. Ma lui, si sa, è un testone. Non demorde facilmente. Anzi, sembra avere fatto ultimamente un po’ di breccia nel muro di Scalfari, arrivato recentemente a riconoscere che, nonostante tutto, il ritorno alla guida del governo potrebbe rivelarsi utile, se non necessario, a Renzi per portare davvero avanti i suoi apprezzabili propositi di riforma istituzionale dell’Europa: ricorso al ministro unico delle Finanze ed elezione diretta del presidente della Commissione di Bruxelles e insieme anche presidente del Consiglio Europeo.

Sono in parecchi anche a sapere che Berlusconi, per quanto interessato ad un nuovo patto del Nazareno, nonostante le delusioni procurategli dal primo, infrantosi contro lo scoglio dell’elezione del successore di Giorgio Napolitano al Quirinale, teme un’eccessiva visibilità, e potere, di Renzi perché questi è pur sempre, e sempre di più diventerà, un suo concorrente elettorale, specie ora che del Pd non fanno più parte i vari D’Alema e Pier Luigi Bersani.

Messo alle strette, se proprio dovesse rinunciare al progetto di Palazzo Chigi per l’interesse di Berlusconi a tenervelo lontano, Renzi potrebbe consentire nella nuova legislatura la conferma di Paolo Gentiloni, non a caso più volte apprezzato pubblicamente da Berlusconi, non certo la promozione di Calenda, Che userebbe la guida del governo per preparare meglio la sua evoluzione verso il modello Macron indicatogli da Confalonieri, visto che i tempi ormai sempre più stretti delle elezioni non gli consentono di imitare subito il nuovo presidente francese.

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