Donald Trump è nel mezzo di difficoltà vere, al termine di un quadrimestre carico di elementi contraddittori. Molto bene la scelta degli uomini, con vere eccellenze nell’amministrazione. Molto bene anche l’atteggiamento del presidente rispetto alle persone scelte: non di rado (cosa mai vista in Europa…) con un pubblico riconoscimento della loro maggiore competenza. Benissimo l’annuncio della riforma fiscale. Benissimo l’azione in Siria e la pressione sulla Corea del Nord, con Russia e Cina per la prima volta costrette (dopo gli otto anni di arretramento obamiano) a considerare il fatto nuovo di una ritrovata centralità occidentale e americana). Benissimo anche le coraggiose dichiarazioni di questi giorni in Medio Oriente, a partire dalla denuncia delle manovre iraniane e del terrorismo islamista e fondamentalista (chiamato proprio così, senza perifrasi o circonlocuzioni). Tutte cose impensabili per Obama.
Molto male altre cose, invece. Il Russiagate pesa non poco: nel nostro piccolissimo, da qui, dicemmo subito che sarebbe stato interesse di Trump promuovere (anziché subire) un’investigazione a trecentosessanta gradi. Male anche una sottovalutazione delle burocrazie, del peso di “Washington” come luogo di apparati non docili da addomesticare, quasi certamente sottovalutati da Trump nella loro capacità di resistenza.
Siamo dinanzi a una lotta spettacolare, nel laboratorio americano, tra un outsider e il deep State, tra un homo novus e il vecchio establishment. Ogni esito è possibile. Può esserci un compromesso alto. Può esserci un compromesso basso, con un presidente tenuto sotto pressione e in ultima analisi azzoppato. Mentre appare francamente improbabile (tranne che per i mainstream-media) l’avvio di una effettiva procedura di impeachment.
Ma – a maggior ragione – questa realtà andrebbe studiata, capita, raccontata sine ira et studio, con animo sereno, senza pregiudizi. Servirebbe Tocqueville, servirebbe la capacità di capire come nel ventunesimo secolo trovino nuovi bilanciamenti le forze attive nelle istituzioni e nella società americana.
E invece? E invece abbiamo a che fare con la triste e faziosa stupidità dell’inviato collettivo (con poche meritorie eccezioni). Quelli che non hanno capito nulla della campagna elettorale, quelli per cui Hillary aveva “vinto i dibattiti”, e ora cercano una sorta di impropria personale “vendetta”. Come se scrivere righe di fiele contro Trump riscattasse oggi la loro non-comprensione di allora. Come se potesse cancellare il fatto che quella campagna elettorale li ha spiazzati per un anno mezzo.
Ma forse sta proprio qui il punto. Nel nostro piccolissimo, abbiamo scritto fino all’ossessione un concetto durante le primarie e le presidenziali: più che guardare Trump, bisogna guardare e capire i suoi elettori, un ceto medio e medio basso incazzato, impaurito, impoverito, che era stato sempre escluso dall’agenda politica e mediatica “ufficiale”.
Ecco, quegli elettori ci sono ancora. E resteranno, qualunque sia l’esito della presidenza Trump. E ovviamente non credono più ai mediatradizionali. Fanno bene.