Va bene, si fa per dire: purtroppo siamo ormai assuefatti e mitridatizzati alla pochezza del dibattito politico, a cui fa da specchio la miseria della conversazione pubblica sui mainstream-media. Lo abbiamo detto molte volte: il guaio dei politici italiani (tranne eccezioni) è che parlano con i giornalisti italiani, e il simmetrico guaio dei giornalisti italiani (di nuovo: tranne eccezioni) è che parlano con i politici italiani. Ne viene fuori un’atmosfera condominiale, da cortile interno, senza visione.
E così, un po’ tutti accettiamo l’assurdo (logico, politico, costituzionale) per cui si parla di legge elettorale del tutto a prescindere da qualunque considerazione sulla forma di stato e sulla forma di governo, da cui invece occorrerebbe partire.
Lo dico semplificando: prima definisci l’architettura istituzionale, e poi – solo poi! – scegli il sistema elettorale più adatto a quel modello. Prima stabilisci se vuoi andare a Washington (presidenzialismo) o a Parigi (presidenzialismo con un capo di governo distinto) o a Londra (premierato), e poi scegli il meccanismo elettorale corrispondente.
Se invece discuti di dettagli elettorali senza alcuna visione d’insieme, sia la causa che la conseguenza sono evidentissime. La causa è il piccolo obiettivo di alcuni: creare le condizioni “matematiche” di una non-vittoria, che renda a quel punto indispensabile (“per il bene del paese”…) un qualche pasticcio consociativo realizzato dopo il voto e alle spalle degli elettori. La conseguenza è che non finiremo né a Londra, né a Parigi, né a Washington: ma a Beirut o a Tripoli, tra fazioni e tribù in lotta.
Auguri a noi tutti, e qualcuno si ricordi di comunicarlo ai mercati in vista delle prossime emissioni di titoli del debito pubblico, con un QE ormai alle sue ultime battute.