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La maternità surrogata e il moltiplicarsi di desideri artefatti

FRANCESCO OCCHETTA Populismi

La maternità surrogata è tra i temi politici più strumentalizzati nel dibattito pubblico. È l’esempio in cui le categorie dell’umanesimo cedano il passo a quelle del post-umanesimo, in cui la riflessione pubblica si limita ad accogliere (passivamente) i traguardi della tecnica. Ci chiediamo: quando viene lesa la dignità delle persone deboli come il nascituro e la gestante madre? E quanto il desiderio soggettivo di una coppia committente può diventare diritto in un Ordinamento democratico? Un approccio antropologico alla maternità surrogata richiede di portare la domanda al cuore della tecnica per cercare come questa possa servire l’uomo, senza servirsene.

La Chiesa, attraverso il magistero, non si stanca di affermarlo: “Ad ogni essere umano, dal concepimento alla morte naturale, va riconosciuta la dignità di persona. Questo principio fondamentale, che esprime un grande ‘sì’ alla vita umana, deve essere posto al centro della riflessione etica sulla ricerca biomedica, che riveste un’importanza sempre maggiore nel mondo di oggi”. Lo ha recentemente ribadito anche papa Francesco nell’Amoris laetitia, al n. 54. Allora diviene arduo, sotto il profilo giuridico prima ancora che morale, considerare la maternità surrogata una tecnica riproduttiva eterologa in caso di sterilità. Questo significherebbe svilire il valore della relazione che madre e figlio vivono nei nove mesi di gestazione. La maternità surrogata non può nemmeno essere ridotta, come ritengono alcuni bioeticisti, alla semplice donazione di un organo, perché l’utero, diversamente da un rene o un polmone, esiste per contenere un’altra vita e non ha altra funzione se non quella. Basterebbe poi una consultazione pubblica nei vari Paesi europei per capire che la maggioranza della popolazione è contraria alla pratica.

La parte più debole rimane il nascituro, che “va rispettato e trattato come una persona fin dal suo concepimento e, pertanto, da quello stesso momento gli si devono riconoscere i diritti della persona, tra i quali anzitutto il diritto inviolabile di ogni essere umano innocente alla vita”. A questo proposito, tra l’altro, non può non suscitare interrogativi il fatto che nel mondo ci siano circa 170 milioni di bambini abbandonati. Prendersi cura di loro attraverso l’adozione o l’affido, da sostenere come cultura politica, riporterebbe nei confini dell’umano il desiderio di diventare genitori e di crescere un figlio.

Fino a che punto, dunque, l’idea del legame liquido che fonda la surrogazione può condizionare le domande e gli appelli più profondi della coscienza morale? Davvero vogliamo insegnare ai giovani che tutto può essere disponibile, soggetto a prezzo di mercato e controllato dagli interessi delle industrie biotecnologiche? Se si afferma culturalmente che nemmeno l’essere dei nascituri è indisponibile, dove fonderanno la propria libertà le giovani generazioni quando cresceranno? E quale tipo di rigetto avranno per la generazione che li ha resi disponibili? Sono queste le domande a cui rispondere come civiltà umana. La libertà è sempre “per qualcuno”, non è mai “da qualcosa”; non si realizza nello spazio infinito del moltiplicarsi dei bisogni-desideri, ma si costruisce nell’accoglienza del limite e della relazione con l’altro.



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