Bisognerebbe essere grati ai ricercatori dell’Istat che hanno voluto nei giorni scorsi offrire alla valutazione di studiosi ed opinione pubblica un loro studio in cui si ridisegnano i confini di gruppi e classi sociali con interessanti innovazioni di classificazione, sulle quali sarà necessario a mio avviso soffermarsi con grande attenzione. E alla pubblicazione della ricerca è seguito un dibattito cui, a mio parere, ha nociuto qualche semplificazione giornalistica che ha parlato di un’ormai avvenuta scomparsa in Italia di borghesia ed operai. Ora, ripromettendomi di tornare molto presto sullo studio – che è oltremodo ricco di elaborazioni statistiche e conseguenti suggestioni – mi voglio soffermare in questa breve nota su quanto riportato da qualche giornale che, alla luce della ricerca, ha parlato come dicevo dell’avvenuto tramonto in Italia della classificazione più grande che ha resistito a lungo in analisi sociologiche susseguitesi nel corso degli anni e riguardante la borghesia e gli operai.
E in proposito affermo di non condividere tale affermazione, e non già per un residuo di veterooperaismo, ma perché le attività di studio e di ricerca che ho in corso, visitando luoghi di lavoro e dialogando con operai, tecnici, quadri e con sindacalisti e operatori economici mi portano a constatare come borghesia imprenditoriale e operai siano invece ancora ben presenti in Italia ed anche nel Mezzogiorno, ancorché siano interessati da molti anni a trasformazioni, mutamenti o meglio ad arricchimenti di articolazioni interne alle due classi che, tuttavia, non ne hanno mutato la matrice strutturale.
Si considerino gli operai. Mi chiedo come non classificare come tali i 10.980 addetti diretti dell’Ilva a Taranto, le 7.557 persone impiegate alla FCA-Sata a S.Nicola di Melfi in Basilicata, e i 6.180 occupati della Sevel ad Atessa in Val di Sangro (CH)? Sono fabbriche, quelle appena citate, corrispondenti nell’ordine ai tre più grandi stabilimenti manifatturieri del Paese per numero di occupati diretti, peraltro tutti localizzati nell’Italia meridionale. E che dire poi dei 4.749 occupati alla FCA di Pomigliano d’Arco, dei 1.970 alla FPT di Foggia, ai 1.985 della Tdit-Bosch di Bari, ai circa 1.000 dell’Alenia Aermacchi a Grottaglie (TA) e ai circa 2.500 operai e tecnici della stessa società sempre a Pomigliano d’Arco?
Ma la stessa domanda potremmo estenderla ai dipendenti di migliaia di fabbriche piccole, medie e grandi diffuse dal Piemonte alla Lombardia, dal Veneto al Friuli, dall’Emilia Romagna alla Toscana, dalle Marche al Lazio, dalla Calabria – sì, anche in questa regione vi è qualche fabbrica di grandi dimensioni per il numero dei suoi occupati – alla Sicilia e Sardegna: si pensi in particolare, per le due isole maggiori, ai tre grandi poli della petrolchimica di Priolo-Augusta (SR) e di Milazzo (ME), o a quello imponente della Saras a Sarroch (CA). Nel 2015 la media annuale di occupati nell’industria in senso stretto è stata in Italia di 4,5 milioni di addetti.
Poi, certo, bisognerebbe analizzare a fondo – e sarebbe meglio farlo con indagini dirette sul campo in cui aggregare competenze di statistici con quelle di sociologi del lavoro, economisti e antropologi culturali – i mutamenti intervenuti o in corso nel mondo del lavoro salariato di fabbrica in termini di istruzione, propensioni al consumo, attese di promozione sociale, gestione del tempo libero, etc. Migliaia di tecnici e anche di dirigenti, peraltro, oggi vivono una condizione per tanti aspetti simile a quelle degli operai, se è vero che i licenziamenti riguardano anche le suddette figure che potrebbero invece apparire per certi aspetti privilegiate.
Insomma, nell’esprimere gratitudine all’Istat per l’offerta di nuove ricerche – comunque presentate prudentemente come sperimentali – ritengo opportuno suggerire cautela nel formulare nuove classificazioni sociologiche, invitando invece gli ‘studiosi di buona volontà’ a non perdere mai il contatto diretto con il mondo reale della produzione e le sue concrete articolazioni sociali.