Domenica gli elettori francesi hanno scelto il loro nuovo presidente, Emmanuel Macron, centrista europeista che ha sconfitto i partiti storici di destra e sinistra e scacciato l’incubo diffuso di un disimpegno europeo di Parigi, paventato dalla sua sfidante, la leader del Front National Marine Le Pen.
Stando ai voti assoluti Le Pen è arrivata terza, con 10 milioni di preferenze: davanti a lei, oltre Macron con 20, l’astensione con 12. Dunque ci sono stati più francesi che hanno preferito scegliere il proseguire nello status quo, piuttosto che decidere di affidare la sorte del paese alla discendente della dinastia storica del Front National (discendenza che forse ha pesato, con tutto il carico di retorica e evocazioni, e per questo è possibile che al prossimo congresso il nome cambierà per staccarsi da quel carico di ricordi cupi). L’europeismo globalista di Macron ha vinto sul nazionalismo lepenista.
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che del nazionalismo isolazionista s’è fatto simbolo globale di successo, si è rapidamente complimentato con Macron – probabilmente, dopo la concessione della vittoria di Le Pen, è stato il primo leader internazionale a onorare il nuovo presidente in pubblico (se non il primo, tra i primi). In un tweet il Prez s’è detto “molto lieto di lavorare con lui”. E pensare che in uno dei primissimi appuntamenti internazionali all’inizio della sua Amministrazione, quando a otto giorni dall’Inauguration ospitò a Washington la premier uscente inglese Theresa May, aveva definito la Brexit una “cosa stupenda”, augurandosene altre; e una mesata fa il portavoce della Casa Bianca disse che Trump era uno dei leder che avrebbe guidato il processo internazionale di Brexit.
Ora è chiaro che “lavorare” con Macron significhi prendere una direzione completamente opposta; del discorso della vittoria restano impresse come un tatuaggio poche, pesantissime parole: “Difenderò la Francia e difenderò l’Europa”. Le elezioni francesi sono state il passaggio che ha segnato la fine dello spauracchio momentaneo per i tifosi dell’Unione Europea, una minaccia rappresentata dall’auspicio di altre Brexit dal trono di successo al 1600 di Pennsylvania Ave, e che aveva calendarizzati tre appuntamenti: le elezioni in Austria, Olanda e Francia. In tutti e tre i paesi gli elettori hanno risposto ‘no’ alla proposta di frammentazione dell’Europa che il filotto delle tre consultazioni poteva rappresentare.
Implicita una sconfitta di Trump, per lo meno del primo Trump, quello che pensava alla disarticolazione del sistema multilaterale globale che l’Occidente rappresenta con l’UE. Con una nota: Trump non è il Califfo che chiedeva ai musulmani di non votare perché le elezioni sono simbolo dell’idolatria: Trump disarticolando l’Europa spera, sperava meglio, nella possibilità di crearsi intorno un mondo di singoli, con cui trattare in via diretta e bilaterale, come piace fare a chi per una vita ha chiuso affari immobiliari.
Si scrive “del primo Trump” però, e si intende lo strascico di campagna elettorale entrato nella Casa Bianca nei primi giorni: perché poi l’amministrazione e il suo leader hanno fatto i conti con il compito di governare la più grossa economia del mondo, il più forte e tecnologico esercito, il simbolo di una struttura sociale e culturale internazionale. È pacifico che una normalizzazione è in atto a Washington; ossia l’azione politica e filosofica dell’amministrazione Trump si sta spostando su una linea più classica del conservatorismo (con eccezioni, più o meno profonde, che restano). Per esempi: la Cina è diventata un avversario con cui dialogare in una retorica distante anni luce da quando in campagna elettorale veniva dipinta come il male estremo del mondo americano; con la Russia si usa bastone e carota, e il segretario di Stato Rex Tillerson, finalmente entrato in funzione effettiva, ha tenuto spesso un atteggiamento severo con Mosca; all’Onu c’è una rappresentanza forte, e la Nato è tornata indispensabile nell’ottica di Trump; i globalisti di mercato che hanno in mano la sfera economica dell’amministrazione stanno dettando l’agenda evitando strani isolamenti; i centristi moderati newyorkesi stanno prevalendo sui rivoluzionari anti-sistema nel cerchio del potere interno alla West Wing e indirizzano la rotta politica.
L’editoriale del direttore di Repubblica Mario Calabresi contiene l’insegnamento profondo delle elezioni francesi, che forse finora con i Trump e la Brexit, la politica urlata, non avevamo capito: “La vittoria di Emmanuel Macron contiene una lezione fondamentale: si può fare un discorso diverso e vincere. Diverso dalla rabbia, dalle paure e dalla promessa di rovesciare il tavolo”. Poi chiaro, Macron è un passo, non è l’arrivo – “Non è vero che dentro l’Europa c’è una competizione economica e sociale che alimenta il protezionismo, il nazionalismo, il rifiuto dell’Unione? Tutto questo esiste, è un problema serio quanto complesso, ma non ha innescato nessun rifiuto di massa” scrive Stefano Cingolani su queste colonne – ma En Marche! ci dice che per modificare quel che non funziona non serve per forza la ruspa.