“I britannici hanno scelto il caos”: il Daily Telegraph, il quotidiano più vicino ai conservatori, ha fotografato così il risultato elettorale. E’ lo specchio della delusione per un esito che punisce certo Theresa May, ma che non premia nessun altro. Il primo ministro formalmente ha vinto, ma in realtà porta a Downing Street la sconfitta del suo progetto; il laburista Jeremy Corbyn ha perso, ma viene considerato il vero vincitore. Un paradosso amletico nel Paese di Shakespeare che, al contrario, aveva abituato la politica europea alla chiarezza delle scelte e al primato della governabilità. Invece, e questa può essere una lezione da trarre ben oltre le isole britanniche, oggi la chiarezza non s’addice agli umori oscuri degli elettori. E i tentativi di forzare la mano nella speranza di stravincere sono destinati al fallimento.
La Francia con Emmanuel Macron sembrava aver dato il via a una nuova fase ben oltre il suo Paese, invece appare una eccezione non la regola. Vedremo i risultati delle elezioni per l’Assemblea nazionale, e quanti seggi otterrà il nuovo partito la République en Marche. E vedremo cosa accadrà il 24 settembre in Germania dove Angela Merkel, secondo i sondaggi, dovrebbe vincere, ma senza avere, nemmeno lei, la maggioranza. Quanto all’Italia, quel che è successo con la riforma elettorale non fa che confermare le tendenze emerse con il referendum costituzionale. Anche Matteo Renzi ha cercato di ottenere un mandato chiaro e netto prima con il referendum poi, sia pure in modo più tortuoso, vincolando i partiti a un accordo sulle regole del gioco elettorale. Invece, “il popolo” e i suoi rappresentanti preferiscono navigare nelle acque melmose della ingovernabilità per difendere i propri interessi particolari. Lo aveva già detto, del resto, Francesco Guicciardini cinque secoli fa.
Cosa accadrà adesso in Gran Bretagna non è affatto chiaro. C’è chi tra i Tories vorrebbe che Theresa May accettasse la sconfitta e si dimettesse, ma non ci sono personaggi alternativi anche se alcuni si sentono già sui blocchi di partenza (pensiamo ad esempio a Boris Johnson). E’ probabile che si formi una maggioranza con gli unionisti nord-irlandesi. E’ già successo diverse volte e non ha mai retto a lungo. Il deludente risultato degli scozzesi allontana la minaccia di un nuovo referendum secessionista.
L’inatteso risultato dei laburisti e la vittoria personale di Corbyn va letta con attenzione. Certo, esprime una voglia di cambiamento anche nell’agenda politica del Paese, raccoglie le aspirazioni di tanti giovani che erano rimasti fuori dall’agone politico, ma riporta indietro il Labour Party, lo allontana dal governo, lo ridimensiona come “partito della nazione”, cioè la nuova frontiera dove lo aveva condotto Tony Blair. Quanto alla meteora Ukip, scompare come era apparsa anche perché ha raggiunto il suo risultato: la Brexit.
Il tema non è stato affatto centrale nella campagna elettorale, probabilmente i britannici lo ritengono cosa fatta. Il problema è come gestirla. Non è detto che un governo debole porti a una linea morbida, al contrario potrà essere tentato da forzature populiste per mostrare la sua presunta autorità. Molto dipende a questo punto anche dall’Unione europea. La fermezza manifestata a parole dovrebbe cedere il posto alla duttilità diplomatica. E’ fondamentale un distacco che non sia davvero irreversibile e produca i minori danni possibili all’Europa, quella dentro e quella fuori dall’Unione. Con quel che accade negli Stati Uniti da una parte e in Russia dall’altra, e con un terrorismo islamico destinato a farsi più diffuso dopo la sconfitta del Califfato sul suo territorio, tra Siria e Iraq, gli europei sono spinti dal vento della storia a prendere decisioni comuni nell’interesse di tutti.