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Ecco settori e aziende che saranno favoriti dalle politiche di Trump

Di Nicolas Janvier
Watergate, clima, Donald Trump e Melania Trump

L’inattesa vittoria di Donald Trump si è tradotta in un rialzo del 10% dell’S&P 500, ma il motivo per cui il mercato ha reagito in questo modo è che i Repubblicani hanno inaspettatamente mantenuto il controllo della Camera dei Rappresentanti, accrescendo la loro maggioranza in Senato. Questo è stato un aspetto importante, giacché il mercato ha compreso che un Presidente favorevole alla crescita e che ha il controllo del governo sarà in grado di far approvare politiche pro-crescita incontrando una minore opposizione.

Ma quando si parla di politiche economiche, alcune cose possono andare per il verso giusto e altre per quello sbagliato, soprattutto con la Trumponomics.

Le politiche pro-crescita del Presidente Trump includono misure che rientrano nella categoria dello stimolo fiscale, come la spesa per infrastrutture, gli sgravi fiscali per le imprese, la riforma fiscale per le persone fisiche e la deregolamentazione. Tra le sue politiche “negative” troviamo il protezionismo e le restrizioni all’immigrazione, nonché il rafforzamento del dollaro Usa e l’inflazione.

Riteniamo che attualmente il mercato non sconti pienamente i benefici delle politiche pro-crescita di Trump, creando sacche di opportunità per i gestori attivi, soprattutto nell’universo delle società di dimensioni più ridotte.

LE POLITICHE PRO-CRESCITA DI TRUMP

Per capire se il mercato sconta o meno le politiche di Trump, dobbiamo analizzarle in modo più approfondito e valutarne i benefici netti.

La spesa per infrastrutture in percentuale del Pil si è attestata in media al 4,5-5% dal 1950, ma l’attuale 3% è un livello nettamente inferiore alla media storica; una ripresa sarebbe favorevole per l’economia. Nonostante il Presidente Trump abbia parlato della possibilità di varare un programma di spesa per infrastrutture da 1.000 miliardi di dollari, il nostro scenario di riferimento considera più probabile un aumento di 250 miliardi.

Crediamo che gli sgravi fiscali per le persone fisiche siano poco probabili, ma i Repubblicani e i Democratici concordano sul fatto che l’attuale aliquota dell’imposta sulle società, pari al 35%, sia troppo elevata, soprattutto rispetto al resto del mondo. Ciò detto, è raro che alle grandi società venga applicata l’aliquota massima in virtù della loro impronta e attività a livello globale, mentre le imprese di minori dimensioni, come una piccola banca in Ohio, un produttore di acciaio in Pennsylvania o un distributore in California, tendenzialmente pagano imposte del 35%.

Il Presidente Trump ha proposto di portare l’aliquota al 15%, ma anche in questo caso secondo il nostro scenario di riferimento è più probabile che l’imposta invece scenda al 20-25%. Elaborando un modello di questo scenario in base alle società che pagano l’aliquota massima, vediamo che gli utili societari negli Stati Uniti aumenteranno di circa il 10-12%. Si tratta di un risultato notevole, sia per l’economia, data la velocità di circolazione della moneta, che per la redditività delle imprese.

Il nostro scenario di riferimento prefigura dunque che un programma di spesa per infrastrutture da 250 miliardi di dollari, abbinato a un taglio delle imposte societarie, possa far accelerare la crescita del Pil dell’1,4% entro il 2019. Dato che per il 2017 prevediamo una crescita del Pil del 2%, ciò porta la nostra stima di riferimento al 3,4%, a parità di condizioni, nel 2018/19.

È molto difficile creare un modello della deregolamentazione, che probabilmente favorirebbe le società di dimensioni ridotte rispetto alle large cap. Può apparire controintuitivo sotto molti aspetti, ma la deregolamentazione può avvantaggiare le imprese più grandi. Si può infatti sostenere che la regolamentazione rappresenta un vantaggio competitivo per large cap rispetto alle concorrenti più piccole, poiché le prime hanno le risorse e le infrastrutture per gestire la loro attività in conformità con la regolamentazione. In parole povere, la regolamentazione tiene la piccola banca dell’Ohio ben lontana dagli affari di Goldman Sachs.

Pertanto, se in generale la regolamentazione viene dipinta come un fattore negativo, e nel complesso lo è, secondo la prospettiva di una società più grande un assetto regolamentare rigoroso può essere favorevole, in quanto limita la concorrenza delle imprese di minori dimensioni.

Alle politiche economiche “positive” possiamo aggiungere anche il rimpatrio di liquidità dall’estero. Si stima che all’estero stazionino 1,6 trilioni di USD di imposte sulle società statunitensi – Apple da sola detiene liquidità all’estero per circa 239 miliardi di USD – quindi un rimpatrio avrebbe ripercussioni significative per l’economia.

IL TRUMP “NEGATIVO”

Il Presidente Trump ha parlato chiaramente di politiche che potrebbero rivelarsi negative per gli Stati Uniti e per le economie globali. Quella più palesemente sfavorevole riguarda il commercio. Trump ha assunto toni aggressivi circa i dazi doganali, ma di recente ha preso le distanze da dichiarazioni potenzialmente compromettenti, come accusare la Cina di manipolazioni valutarie e minacciare il ritiro degli Stati Uniti dal Nafta. Ciononostante, se pienamente attuate, le politiche commerciali del Presidente Usa sarebbero dannose per l’economia statunitense; è difficile elaborare un modello, ma riteniamo che il Pil del paese potrebbe risentirne nella misura dello 0,7% entro il 2019. Anche la Cina ne sarebbe penalizzata e l’area euro non uscirebbe indenne da tali misure; tuttavia, sembra che il Presidente stia facendo marcia indietro al riguardo.

Anche la riforma dell’immigrazione è difficile da rappresentare con un modello. Negli Stati Uniti il numero di immigrati è passato dai 2,2 milioni del 1980 a 11,7 milioni nel 2014 e questa crescita ha inciso positivamente sull’economia del paese: dopo tutto, gli immigrati diventano lavoratori e consumatori, ossia acquistano abitazioni, automobili e beni di consumo. Una misura aggressiva volta a contenere l’immigrazione avrebbe dunque effetti deleteri, nell’ordine del 2,0% del Pil entro il 2020.

Tuttavia, ancora una volta, il nostro scenario di riferimento non prevede la piena attuazione delle restrizioni all’immigrazione proposte da Trump. Inoltre, attualmente il Pil è superiore alle aspettative, dato che le dinamiche stagionali di solito frenano la crescita nel primo trimestre, mentre nel resto dell’anno si osserva una ripresa. Ad esempio, secondo le attuali previsioni l’espansione nel secondo trimestre dovrebbe avvicinarsi al 4%.

AMERICA FIRST!

Lo stimolo fiscale, la deregolamentazione e l’esenzione temporanea dall’imposta sul rimpatrio di capitali negli Stati Uniti sono tutte misure favorevoli per il Pil Usa, ma gli sgravi fiscali per le imprese da soli avvantaggerebbero le società che generano una quota maggiore del fatturato e degli utili negli Stati Uniti. Un orientamento in stile “America First” chiaramente favorisce le società che operano sul mercato nazionale e, a nostro avviso, le small cap e le mid cap sarebbero le principali beneficiarie di tali politiche. Per le società di maggiori dimensioni, le cui attività sono più orientate a livello globale, l’effetto sarebbe meno positivo.

MA ALLORA COSA SCONTA IL MERCATO?

Dato che l’S&P 500 ha guadagnato il 6,8% da inizio anno e il 10% dall’elezione di Trump, secondo le attuali stime di consenso i vantaggi delle politiche pro-crescita di cui abbiamo parlato sono già scontati nelle quotazioni.

Tuttavia, dalla nostra analisi emerge un quadro diverso. Partiamo dalle imposte sulle società. Se dividiamo l’S&P a metà, separando le società che pagano le imposte più elevate da quelle con aliquote ridotte, appare chiaro che subito dopo le elezioni l’idea che i benefici della Trumponomics fossero scontati dal mercato era piuttosto ragionevole, poiché le società soggette a una minore pressione fiscale hanno nettamente sovraperformato l’altra categoria, di circa il 5,5%.

Tuttavia, da quando sono emersi segnali secondo cui i programmi di Trump potrebbero non andare come inizialmente previsto, quelle stesse società – le cosiddette beneficiarie degli sgravi fiscali – hanno tutte notevolmente sottoperformato a partire da dicembre e soprattutto nelle ultime settimane. È lecito sostenere che, sebbene i vantaggi derivanti da queste politiche possano essere scontati nel complesso, a livello di singoli titoli attualmente non si può dire lo stesso. Lo conferma la performance del benchmark: l’S&P 500 ha guadagnato il 6,8% da inizio anno, mentre le mid cap sono in rialzo del 4% e le small cap solo dell’1,6%.

Ravvisiamo inoltre una differenza tra le società che realizzano il loro fatturato all’estero e quelle orientate verso il mercato interno. Dividendole nuovamente in due categorie, appare chiaro che il mercato non sconta più una politica economica in stile “America First”, che avvantaggerebbe le società che generano il loro fatturato negli Stati Uniti. Subito dopo le elezioni, queste società hanno nettamente sovraperformato, ma dagli inizi di dicembre e recentemente – essendo state messe in discussione la traiettoria di crescita degli Usa e una rotazione di capitali dagli Stati Uniti verso l’Europa – tali imprese orientate verso il mercato interno hanno perso terreno.

I riacquisti di azioni proprie permettono di identificare le società che detengono abbondante liquidità all’estero, che tendono a prendere in prestito denaro negli Stati Uniti per riacquistare azioni proprie. Osservando queste imprese possiamo desumere il giudizio del mercato sulle aziende che beneficerebbero dell’esenzione temporanea dall’imposta sul rimpatrio di capitali. Ancora una volta, emerge la stessa tendenza. Queste società hanno sovraperformato subito dopo le elezioni, ma dall’inizio dell’anno hanno tutte perso notevolmente terreno.

SINTESI

Dal punto di vista macroeconomico, osservando gli Stati Uniti e la performance del mercato si potrebbe concludere che i benefici delle politiche di Trump siano già scontati nelle quotazioni. Ma a livello microeconomico, ossia disaggregato, siamo fermamente convinti che tali benefici non siano più pienamente scontati dal mercato. Tra l’altro, crediamo che tali benefici siano scontati più dalle large cap che non dalle mid cap e small cap.

Chiaramente, se si considerano le valutazioni – e soprattutto l’S&P 500, che quota a 18 volte gli utili attesi – non si può far altro che ammettere che attualmente le quotazioni del mercato sono eque. Ma uno dei vantaggi della gestione attiva è che io non investo nell’S&P 500, bensì in 72 società che a mio avviso sovraperformeranno e presenteranno caratteristiche di crescita e valutazioni migliori rispetto a quelle del mercato nel suo complesso.

Di conseguenza, sulla base delle valutazioni assolute, si potrebbe concludere che le small cap e le mid cap siano sopravvalutate, ma da uno sguardo ai premi di valutazione emerge che queste società quotano con un premio pari rispettivamente a 1 e 1,2 volte rispetto all’S&P 500, un livello che è sceso negli ultimi anni.



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